Quanto vale per l'Italia la crescita del Sud?

di Adelmo GAETANI
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Venerdì 1 Aprile 2016, 17:36 - Ultimo aggiornamento: 17:40
Le tensioni geopolitiche e gli attacchi terroristici continuano a tenere sotto pressione l’economia globale. Dopo una crisi lunga quasi cinque anni, si fanno i conti con una crescita lenta, condizionata dal crollo del prezzo del petrolio e dal rallentamento dei Paesi emergenti.
La politica monetaria accomodante della Fed ha consentito agli Stati Uniti di agganciare negli ultimi anni tassi di crescita vicini al 2 per cento e di movimentare il mercato del lavoro (disoccupazione sotto il 6%).
Sulla stessa strada si sta muovendo la Bce, presente attivamente sul mercato con acquisti mensili di titoli per un valore di 80 miliardi e con tassi sempre più negativi.
Solo che negli Stati Uniti le politiche monetarie hanno trovato compimento e forza nelle scelte sinergiche della Casa Bianca. In Europa, la coraggiosa sfida di Mario Draghi non trova adeguato e convinto sostegno nel Governo comunitario, anzi deve fronteggiare le contrarietà di potenti lobbies tedesche (a cominciare dalla Bundesbank, mai tenera con il presidente della Bce). Così, l’opportunità di sfruttare le condizioni particolarmente favorevoli per l’accesso al credito ai fini della crescita, viene vanificata da politiche generali di bilancio sempre ancorate a sostanziali criteri di rigore o, al più, di insufficienti dosi di flessibilità.
Motivo per cui l’Europa continua ad annaspare, mentre i Paesi più esposti sul fronte del debito pubblico sono costretti a muoversi con i piedi incatenati.
In questo contesto, l’Italia resta inchiodata ad una crescita incerta. Il deludente dato del Pil registrato dall’Istat nell’ultimo trimestre del 2015 (+0,1% con un +0,6% nell’anno), ha fotografato un Paese che avanza con fatica, al di sotto delle previsioni e molto al di sotto delle altre economie concorrenti (nello stesso periodo il Pil è aumentato dello 0,2% negli Usa e in Francia e dello 0,5% nel Regno Unito; su base annuale +1,9% nel Regno Unito, +1,8% negli Usa e 1,3% in Francia).
Che l’Italia si possa muovere con il freno a mano tirato anche nel 2016 trova conferma in recenti stime, secondo le quali il Pil potrebbe fermarsi all’1% (ma c’è chi prevede uno 0,8%) contro una previsione del Governo dell’1,6%. Un danno doppio perché inciderebbe negativamente sullo stock di debito pubblico, mettendo ancora di più in difficoltà il Paese di fronte all’Europa.
Che cosa deve fare l’Italia per invertire una tendenza che alla lunga potrebbe avere pesanti conseguenze socio-economiche?
Tre sono le priorità contestuali di questa fase che intrecciano fattori esterni ed interni. A Bruxelles bisogna chiedere rapidi interventi antideflattivi e più flessibilità in modo da massimizzare l’effetto positivo delle politiche messe in atto dalla Bce. Ma, a sua volta, l’Italia deve fissare e centrare due traguardi interni che, rafforzando sensibilmente la ripresa del Mezzogiorno, darebbero una spinta decisiva al Pil nazionale.
Il primo obiettivo è il pieno utilizzo dei fondi strutturali europei. Secondo uno studio dello Svimez, se quest’anno si spendessero in tutte le regioni meridionali i sette miliardi di euro potenzialmente disponibili si avrebbe un impatto sul Pil del Mezzogiorno del +0,8% che sommato al +0,7 previsto porterebbe la crescita all’1.5%. Naturalmente si tratta di previsioni che occorre trasformare in numeri reali, ma l’indicazione sulle cose da fare è di tutta evidenza. Ma, occorre agire in fretta e bene per attivare investimenti strategici che assicurino un decollo economico alle aree più deboli del Paese.
Altra questione riguarda la cattiva qualità della Pubblica amministrazione nelle Regioni del Mezzogiorno che fa perdere all’Italia parte della ricchezza potenziale. È quanto fa sapere la Cgia di Mestre, sulla base di un’indagine Ue sulla qualità degli Uffici pubblici a livello territoriale.
Rispetto ai 206 territori interessati dallo studio, le Regioni del Sud Italia compaiono 7 volte nel rank dei peggiori 30. Lo squilibrio tra regioni del Nord e del Sud determina il posizionamento negativo dell’Italia nella classifica: 17.mo posto con un indice negativo (-0,930) lontano dalla media europea (posta a zero). Assolutamente negativa la situazione del Mezzogiorno, a partire dal risultato meno pesante dell’Abruzzo (-1,097), fino a quelli peggiori di Sicilia, Puglia, Molise, Calabria (indici che variano da -1,588 a -1,687), per finire con la Campania (-2,242).
Il quadro dipinto da questo indice europeo evidenzia come l’Italia sia il paese che presenta la più ampia variabilità in termini di qualità della Pubblica amministrazione tra Nord e Sud. Secondo il Fmi, se l’efficienza del settore pubblico italiano si attestasse sui livelli ottenuti dai territori più virtuosi (Trento e Bolzano), la produttività di un’impresa media potrebbe crescere del 5-10 per cento e il Pil italiano di due punti percentuali, ovvero di 30 miliardi di euro l’anno.
Di riforma della Pubblica amministrazione si parla da anni, nuove leggi e impegni non sono mancati, ma evidentemente la luce dei riflettori non ha mai inquadrato il Mezzogiorno. È ora di registrare la direzione dei fari. Serve all’intero Paese.
Quello che si deve e si può fare per il Mezzogiorno e l’Italia per uscire dalla palude è chiaro. Si tratta di verificare se lucidità politica e lungimiranza amministrativa consentiranno di raggiungere traguardi che non sembrano apparire proibitivi. Purché lo si voglia e si operi nella giusta direzione.

 
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