Quale patto nella babele delle voci per un accordo giallorosso

Quale patto nella babele delle voci per un accordo giallorosso
di Massimo ADINOLFI
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Venerdì 23 Agosto 2019, 12:51
Ma i punti - i tre punti di Zingaretti, i dieci snocciolati da Di Maio – cosa sono? Sono condizioni, priorità, pregiudiziali? Sono clausole di sbarramento o contributi al programma di governo, formule per chiudere un accordo o per mandarlo all’aria? Sarebbe più semplice capirlo, se dietro l’elenco presentato dopo i colloqui al Quirinale i partiti parlassero con una voce sola. E invece esce Zingaretti e i renziani si agitano: i suoi tre punti non ricalcano il deliberato approvato all’unanimità dalla Direzione. 

Zingaretti vuole strozzare in culla ogni tentativo di far nascere un nuovo esecutivo, dicono sospettosi. Poi tocca a Di Maio, che un eventuale cambio di alleanze più che auspicarlo lo subirebbe, ed è subito evidente che il suo elenco di cose da fare è un coperchio sopra una pentola in ebollizione. Perché anche tra i grillini c’è chi vince e c’è chi perde, chi non ha problemi a fare il governo col Pd, e chi invece solo poche settimane fa lo chiamava il partito di Bibbiano: Di Maio stesso.

Si sa: i Cinque Stelle sono pronti a compiere il fatale passo più che altro per evitare le urne e un forte ridimensionamento elettorale. In questo Parlamento sono maggioranza, nel prossimo chissà. Ma la sconfitta non peserebbe su tutti in egual modo. Non per esempio sul Di Battista, il guerrigliero, che probabilmente ha tra i suoi sogni quella di prendere le redini del Movimento in una nuova legislatura di opposizione, duri e puri come all'origine. Fico, al contrario, sull'accordo col Pd punta, perché sarebbe la vittoria della sua linea di sinistra su quella filo-leghista imposta da Di Maio nel 2018. E infine, per un Grillo che spalleggia Fico e non vuole più saperne di Salvini, c'è un Casaleggio, a quanto si dice, più comprensivo verso eventuali ritorni all'ovile. Insomma, una Babele. E dubbi e ipotesi e diffidenze che si rincorrono.

Neanche in casa Pd, si diceva, c'è una volontà univoca e compatta. Ce ne sono due, piuttosto, nonostante l'unanimismo della Direzione. La posizione ufficiale è ambiziosa: governo di svolta. Ma quanto possono chiedere i dem ai grillini: di svoltare a 180 gradi rispetto all'anno bellissimo da loro trascorso a braccetto con la Lega? Non sarebbe una sterzata, allora, ma una marcia indietro: se questo è il senso dei punti posti dal segretario del Pd, allora la strada è tutta in salita. E, certo, chiedere l'abolizione (abolizione, non revisione) dei decreti sicurezza, la cui firma ancora l'altro giorno Conte rivendicava in Parlamento, non è un modo di facilitare le cose. Lo stesso dicasi del taglio dei parlamentari, in cima alle richieste grilline ma che per Zingaretti non andrebbe bene così com'è. Ora, uno che volesse fare l'accordo ad ogni costo cercherebbe di trovare in qualche piega dei lavori parlamentari, o in qualche obiezione di ordine tecnico, il modo di sminare il terreno, invece di rischiare di far saltare tutto. Ma il segretario Pd lo ha detto chiaramente che non ci pensa nemmeno a fare il governo a ogni costo; solo che molti, al Nazareno, pensano che in realtà non lo voglia fare a nessun costo; pensano che, anzi, in questo momento la nascita di un nuovo governo avrebbe costi solo per lui, Zingaretti. Costretto prima ad andar dietro a Renzi, che spinge perché l'accordo si faccia, e poi magari a dover difendere il nuovo nato, mentre il rivale si terrebbe le mani libere. Perché allora accollarsi un simile fardello, e impegnarsi in una prospettiva comunque assai accidentata? C'è una sola risposta, ma per Zingaretti è decisamente scomoda: perché con Renzi e per un accordo si sono pronunciati anche pezzi della sua maggioranza, a cominciare da Franceschini. E poi c'è Delrio, e a mezza bocca forse pure Gentiloni. E tutti quelli che potrebbero ritrovarsi ministri, senza averlo neppure potuto immaginare anche solo un mese fa.
Così siamo in un bel paradosso: i più scettici rispetto all'ipotesi di un governo giallo-rosso, i più cauti, sono proprio i due leader, Zingaretti e Di Maio. Sono altri che premono, sono le voci di dentro che li spingono, e a loro spetterà forse, come a certi monarchi che regnano ma non governano, di mettere solo il finale puntino sulla i.

Sempre che di tutte queste voci diverse riesca a sortire, nei tempi brevi richiesti dal presidente della Repubblica, non diremo un canto all'unisono o una perfetta concordanza di vedute, ma qualcosa di più o meno simile all'accordo politico e parlamentare esplicitamente richiesto da Mattarella. E da quello che ancora ieri si è ascoltato, la cosa non è affatto scontata.

 
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