Quando il Pd ha deciso di non essere più il Pd? Quando ha stracciato e cestinato definitivamente il mito fondativo della “vocazione maggioritaria” a trazione riformista? Le radici del problema si perdono nel tempo. Ma intanto il vorticoso incedere degli anni ha sbiadito fino a confondere l’identità del partito e del progetto. Con due controindicazioni evidenti nelle ultime, convulse settimane.
La prima: il Pd, almeno dal 2011, ha il proprio tratto identitario soprattutto nella capacità di stare al governo, di accollarsi l’onere della cosiddetta “responsabilità”, caratterizzandosi come forza governista, quasi prescindendo dal contesto politico e come se lo “stare nel palazzo” fosse ormai una sorta di obbligo e sacrificio. Il governo, spesso, logora chi ce l’ha, almeno nella tenuta identitaria ed elettorale. Ma è anche un potente fattore di assuefazione, e farne a meno diventa molto difficile.
La seconda controindicazione sta nel rapporto con gli alleati, e il plurale è quantomai opportuno: quasi assecondando lo spirito del tempo, il Pd plasma la propria identità anche in funzione dei compagni di viaggio. Le ultime settimane sono una chiave di lettura: i democratici accentuano l’inclinazione riformista e atlantista se c’è da sottoscrivere il patto con Azione, riscoprono l’anima di sinistra e ambientalista quando scatta l’abbraccio con SI-Verdi, e presto potrebbero rispolverare magari il feeling con il neo-populismo dei cinque stelle. Spinte molto spesso opposte o comunque inconciliabili. Ribadisce però a più riprese Enrico Letta: il filo conduttore delle alleanze è nella difesa della Costituzione e dell’assetto democratico. È un presupposto valoriale nobile e necessario, e che per inciso dovrebbe essere patrimonio di tutti (e da destra segnali diretti ed espliciti sono sempre graditi). Ma non è una proposta di governo, un’agenda di dossier, urgenze e soluzioni condivise. Tra l’altro, a proposito di “agende”, quella attribuita a Mario Draghi è motivo di malcelato imbarazzo nel Pd: difesa a scudo alto dall’(ex) alleato Calenda, accolta di buon grado tra gli stessi democratici e invece avversata da sinistra e cinque stelle. E lo stesso cartello Sinistra-Verdi passeggia sull’orlo delle contraddizioni, ora aprendo il fuoco sul Pd e poco dopo sfruttando il “diritto di tribuna” offerto da Letta. È evidente e per certi versi pure condivisibile: Letta è sospinto dall’ansia dei numeri e della rincorsa al centrodestra, ma traiettorie più lineari non guasterebbero.
Le elezioni allora potevano, e possono ancora essere, l’occasione per sciogliere un enigma: cosa vuol essere il Pd? Un partito a vocazione riformista e liberalsocialista? Un pezzo della famiglia socialdemocratica europea? Il nocciolo di una nuova sinistra? O un “catch-all party”, un contenitore che tutto accoglie e che seleziona di volta in volta alleanze variabili, auto-conservando le classi dirigenti e il precario equilibrio tra correnti interne in perenne conflitto? “Responsabilità di governo” e difesa della Costituzione non sono asset sufficienti ed esaustivi.
La Puglia, ancora una volta, è esempio lampante e amplificatore di segnali.
Succede, quando il cemento che tutto tiene insieme è soltanto la corsa spasmodica ai voti. Il Pd avrebbe dovuto tempo fa ritagliarsi un’identità autonoma, invece di scegliere la subalternità al governatore e al civismo onnivoro che ha “anonimizzato” i dem. Avrebbe dovuto recuperare centralità e magari coerenza sui temi cruciali, troppo spesso oscillante ed equivoco come coalizioni così “contaminate” e variegate obbligano giocoforza a essere. Ribellarsi ora, solo perché è stato intaccato l’equilibrio di candidature e rendite, serve a poco e non è particolarmente commendevole. Ma per ricostruire identità e dignità politica non è mai troppo tardi.