L'efficacia dei compromessi in una politica affidabile

di Alessandro CAMPI
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Giovedì 3 Marzo 2016, 12:35 - Ultimo aggiornamento: 17:29
“Compromesso” è, nella cultura italiana diffusa e nel linguaggio ordinario, una parola gravemente “compromessa”. Su di essa si addensano infatti malintesi e sottintesi. Dovrebbe indicare, nella sua accezione migliore e più corretta, la mediazione virtuosa che due parti raggiungono, magari dopo un’estenuante trattativa e avendo nel frattempo ognuna rinunciato a qualcosa e trovato un reciproco vantaggio. Come quando un venditore e un acquirente si mettono d’accordo sul prezzo di una casa e stendono appunto un compromesso. Ma il significato che ormai comunemente le si attribuisce è invece un altro: quello di un cedimento morale, di uno scendere a patti motivato da debolezza da chissà quali oscuri interessi o ragioni, che si realizza non alla luce del sole ma di soppiatto.

Nella sfera della politica, che di compromessi vive o dovrebbe vivere per definizione, le cose vanno ancora peggio. Specie laddove, come nel caso dell’Italia, il linguaggio e il sentimento dominanti sono ormai quelli dell’antipolitica e della demagogia distruttiva spacciata per legittima indignazione popolare.
Se l’avvicinamento politico-parlamentare tra Dc e Pci, nella seconda metà degli anni Settanta, fu etichettato come un compromesso e per più storico, potenzialmente destinato a cambiare le regole del gioco della democrazia italiana e ad allargarne le basi di consenso, tutto ciò che nella Seconda repubblica è andato nella direzione di un’intesa o di una collaborazione tra forze politiche di segno culturale opposto o divergente è stato invece rubricato sotto il termine ancor più spregiativo di “inciucio”. Una scelta linguistica che appunto sembra voler equiparare il compromesso tra le parti al compromettersi di una di esse, perdendo con ciò la propria reputazione pubblica; e che pare ridurre l’arte nobile e antica della mediazione alla pratica miseranda del mercimonio da mercato.

Ne è risultato che stringere un accordo tra partiti è oggi visto non come un accordarsi nell’interesse dei più, evitando di assumere posizioni intransigenti o estreme, ma come uno spartirsi qualcosa a danno dei cittadini, come un decidere al ribasso o per il peggio. E peggio ancora si è finito per pensare che, essendo il compromesso qualcosa in sé di brutto, sporco e cattivo, non rispettarlo dopo averlo sottoscritto non comporta alcuna violazione d’ordine etico e non merita alcuna censura pubblica.

Ecco allora – per venire al sodo dopo tutta questa fuffa di parole – due ministri del governo Renzi (quello della Giustizia Andrea Orlando e quello per le Riforme Maria Elena Boschi) che il giorno dopo la faticosa approvazione della legge sulle unioni civili, frutto di un compromesso parlamentare e di governo che escludeva dal testo della medesima la controversa questione della stepchild adoption, si sono presi la libertà di affermare che alle adozioni gay si arriverà comunque e presto con un’apposita legge. Il che è come dire che se compromesso o accordo politico c’è stato esso già non vale più nulla.

Laddove quello che colpisce non è il contenuto del quale si discute (appunto le adozioni gay), ma il metodo allegro e disincantato che si indica (la reversibilità in tempo quasi reale di ciò che si è sottoscritto con sofferenza e persino con una certa solennità), quasi a voler dimostrare che quello che si è salutato come un compromesso tra alleati di governo forse è stata solo una tregua armata, ovvero una parvenza di accordo che una delle due parti, incassato il risultato che si desiderava, già si appresta a disconoscere senza troppi giri di parole.

Non si tratta, per carità, di un’accusa moralistica o di un appello ingenuo a rispettare la parola data, ma di una valutazione politica che porta a concludere che la vera forza di un compromesso, a pensarci bene, non sta nella materia – grave o leggera – sulla quale ci si accorda, ma nella forza, serietà e capacità di tenuta dei contraenti. Proprio perché essenziale alla vita democratica il compromesso – vale a dire l’intesa, l’accordo, la collaborazione, la soluzione negoziata, la via di mezzo che prova ad accontentare il maggior numero e a smussare gli angoli – assolve un compito e funziona quando a sottoscriverlo sono partiti o realtà collettive che dietro di sé hanno una storia, una rete di interessi sociali definiti e articolati, una cultura politica o ideologia di riferimento. E dunque sono in grado di rispettare ciò che si sono impegnati a rispettare.

Ma quando il compromesso si stringe tra soggetti deboli, in una logica personalistica, guardando solo all’interesse contingente, mossi per di più da un atteggiamento furbesco, è chiaro che esso non tiene e perde di valore: sottoscritto oggi con enfasi, si fa presto l’indomani a stracciarlo accampando ogni possibile scusa.
Il registro della politica italiana, da quando i partiti di una volta non ci sono più e il loro posto è stato preso da una schiera di leader il cui crisma principale è l’ambizione, sembra in effetti l’inaffidabilità. Che finisce per generare confusione e instabilità. Bello o brutto, a seconda delle preferenze individuali, quello sulle unioni civili era parso un compromesso politico comunque accettabile, reso inevitabile e necessario dall’equilibro delle forze in campo e dalle sensibilità, non proprio convergenti, che su questa delicata materia esistono e che si era saggiamente deciso di contemperare. Evidentemente ci siamo sbagliati.
 
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