Il Pd è a un bivio: estinguersi o reinventarsi “partito”

Il Pd è a un bivio: estinguersi o reinventarsi “partito”
di Mauro CALISE
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Lunedì 26 Marzo 2018, 19:00
Subito dopo la botta elettorale, il diniego rabbioso di Renzi a ogni ipotesi di trattativa coi Cinquestelle era apparsa una scelta obbligata. Dopo avere governato cinque anni, e con risultati apprezzati da tutte le cancellerie europee, potevano i democratici imbarcarsi – per giunta, di stramacchio – sul carro dei vincitori ancora tronfi del loro programma irrealizzabile?  Per di più dopo essere stati vilipesi, durante tutta la campagna elettorale, con ogni tipo di insulto infamante. E col rischio di essere usati per l’ennesima sceneggiata streaming, visto che – quanto a comunicazione – gli allievi di Grillo viaggiano a una velocità siderale rispetto ai trinariciuti del Pd. Consumato questo primo round, oggi comincia ad affiorare qualche dubbio.

Nell’elezione dei presidenti delle due Assemblee, il partito di Renzi non solo non ha toccato palla, ma neanche l’ha vista viaggiare – velocissima – da una porta all’altra dei due vincitori. E giustamente Michele Tito, su Repubblica, si chiede se, per il Pd, la disfatta del 4 marzo «non sia un semplice smacco elettorale, ma tocchi il concetto stesso della sua esistenza». La risposta a questa domanda dipende da molti fattori. Alcuni, importanti, fuoriescono dalle scelte – e dalla portata – dei dirigenti e militanti democratici. Ma riguardano i successi – o gli errori – dei loro più diretti competitor. E’ impossibile, per esempio, prevedere se Di Maio saprà tenere compatto il proprio movimento nel doppio salto carpiato con cui lo sta trasformando nell’architrave del nuovo esecutivo.

E ancor più difficile è sapere se riuscirà nell’impresa biblica di reclutare, in tempi strettissimi, un embrione di classe dirigente attrezzata a sedersi in corsa, anzi in corsissima, nelle cabine di regia – e di comando – di svariate centinaia di palazzi da cui dipende la governance di una delle maggiori democrazie industriali. Ancora più complicato è immaginare se Matteo Salvini sarà in grado di ripetere – innumerevoli volte – il blitz con cui ha messo Berlusconi nell’angolo riuscendo, però, a non spaccare del tutto il centrodestra. Ora che è chiara la sua strategia di prosciugare lo spazio di manovra del suo – quasi ex – alleato, sfilandogli, al tempo stesso, una a una le pedine più rappresentative, il Cavaliere non starà a guardare. Ed è già successo in passato che sia resuscitato quando tutti lo davano per spacciato.

Ma non è su questo che si devono interrogare i democratici. Anzi, il rischio peggiore è proprio che continuino a giocare di sponda. Arrovellandosi – e dilaniandosi – su quali siano le carte migliori che potrebbero venirgli date dagli altri. Questi sono i ragionamenti di un partito in salute, e in piedi. Il Pd, invece, è in agonia. Non tanto sul terreno dei numeri - due milioni alle ultime primarie e sei milioni nell’urna - che possono ancora ingannare e fare sperare in un rimbalzo. E tanto meno nella qualità dei suoi quadri in molte amministrazioni locali, ministeri, grandi aziende pubbliche. L’agonia del Pd è organizzativa. Nel senso più elementare – ed essenziale – del termine. Non ha una leadership legittimata e coesa, non ha strutture intermedie operative e incisive. Non ha meccanismi di reclutamento, selezione e ricambio in grado di fare intravedere – di qui a un paio di anni – una nuova leva di militanti. E, ciò che è peggio, non ha un modello in grado di tenere insieme, integrare questi ingranaggi, funzionali ed umani.

La riflessione che si è avviata in questi giorni bypassa del tutto questo nodo. Si discute sulla direzione da prendere, se un po’ più a destra, più al centro o più a sinistra. Ma – ammesso che abbia ancora senso discettare su tali massimi sistemi – senza una macchina funzionante non si va da nessuna parte. È questa la principale lezione impartita dai vincitori. Si può essere – giustamente – preoccupati del deficit di democrazia interna dei Cinquestelle, e della loro dipendenza dal server di una azienda privata. Ma il loro centralismo cybercratico ha – fino ad oggi - dato poco o nessun fastidio agli elettori, mentre è servito a fare avanzare un esercito di nuovo modello fin – quasi – dentro a Palazzo Chigi. Anche grazie all’afflato visionario di due ideologi, quali Grillo e Casaleggio senior, poco ortodossi ma con orizzonti culturali capaci di comunicare entusiasmo molto più delle narrazioni familiste del giglio magico.

Anche la vittoria della Lega poggia sulle solide basi, e radici territoriali, di un partito che da un quarto di secolo fa crescere amministratori locali e coltiva – piacciano o meno – forti appartenenze identitarie. Su questa infrastruttura, Salvini ha innestato la grinta – e l’esperienza – di una leadership abile a sfruttare linguaggi e circuiti della rete. Senza, per questo, trascurare un certosino lavoro di conquista di avamposti micronotabiliari tra i ranghi del centrodestra al Sud.

Con quale modello di partito il Pd ha intenzione di competere contro due avversari così forti? È questa la vera domanda cui renziani e anitirenziani oggi sfuggono. Perché è una domanda difficile. Richiede uno sforzo ideativo – e una titanica rivoluzione organizzativa – cui il Pd si è sempre sottratto. Pensando di potere supplire con il coacervo di oligarchie, correnti e leadership dimezzate ereditate dai due grandi partiti di massa di cui ha raccolto i frammenti. Nel frattempo, però, l’Italia si è rivelata il laboratorio più prolifico di nuovi modelli di partito – da Berlusconi, a Grillo, a Salvini – di straordinaria originalità, e successo. Se il Pd vuole restare in partita, deve tornare a essere un partito.


 
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