È facile fare adesso l’epitaffio di quel pasticcio digitale che solo cinque anni fa tutti i media - che ora lo deridono - salutarono come il sole dell’avvenire democratico. Ora è lampante che i Cinquestelle si sono inceppati nel medesimo meccanismo che sembrava renderli invincibili: il controllo di una azienda privata sulla piattaforma che gestiva i processi decisionali, e limitava il ruolo degli iscritti a poche scelte plebiscitarie.
Però, gli esperti della materia questo lo avevano detto dall’inizio. Passando, ovviamente, per cassandre. E ora, si corre lo stesso rischio. Confondere il patatrac pentastellato col destino del digitale nei partiti. Che è una questione ben più complessa. Che leader e opinionisti farebbero bene a approfondire. Piuttosto che rimanere prigionieri dei propri pregiudizi, e ignoranza.
I Cinquestelle sono infatti solo uno tra i tantissimi esempi dei mutamenti profondi – nell’organizzazione, nella leadership, nei militanti, nel consenso - che l’innovazione tecnologica sta imponendo nei partiti in giro per il mondo. Forse uno dei più eclatanti, proprio per il fatto di aver tenuto insieme tutti i fattori in un unico modello, e per la rapidità sorprendente dell’ascesa. E certo all’exploit ha contribuito la prorompente vis comunicativa di un comico della statura di Grillo, e il visionario corredo ideologico che l’altro partner fondatore, Casaleggio, seppe vendere all’opinione pubblica. Ma il digitale si sta rivelando più efficace – e duraturo – quando si limita a intervenire sui canali piuttosto che sui contenuti. Tutti i «platform leader» di successo (copy: Federica Nunziata) - da Trump a Bolsonaro a Modi, da Macron a Salvini a Meloni - devono la loro ascesa impetuosa alla professionalità – e ai quattrini – con cui hanno colonizzato i social media. E l’esempio di maggior successo restano i democratici Usa, che usano il digitale in ogni ganglio della vita organizzativa: dal crowdfunding alle campagne elettorali, dagli sforzi per rivitalizzare la partecipazione di base all’informazione sistematica su ogni iniziativa in ogni angolo di ogni Stato dell’Unione.
Vi starete chiedendo come mai, invece, i democratici italiani restano inossidabilmente incapaci di entrare in questo processo universale di cambiamento. E anzi, malgrado i recenti generosi proclami di Letta, sono profondamente ostili. Eppure, non sarebbe difficile mettersi a studiare la questione, ampiamente documentata e approfondita in tante ricerche e analisi. Forse, la risposta più semplice è che questo ammodernamento digitale non conviene a chi attualmente detiene – al centro come in periferia – le leve del potere interno. Meglio gestire il proprio declino piuttosto che rischiare di innovare a costo di non riuscire a controllare.
Sarà più interessante vedere come Conte affronterà la sua sfida.
Non è semplice coniugare la personalizzazione della leadership – il fattore comunque decisivo nella vittoria elettorale – con canali di mobilitazione che siano anche di crescita culturale e di attiva partecipazione alla formulazione dei programmi. Ma la cruna dell’ago nella digitalizzazione dei partiti è proprio qui. In questa sfida, dopo un primo round clamoroso, i Cinquestelle sono andati kappaò. Sapremo presto se Conte riuscirà a farli risollevare.