Pelè, la leggenda del campione assoluto

Pelè, la leggenda del campione assoluto
di Antonio ERRICO
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Domenica 21 Gennaio 2018, 19:40 - Ultimo aggiornamento: 19:41
Il tempo non ha riguardi per nessuno. Nemmeno per gli eroi. Nemmeno per i miti. Il tempo passa, insulta, sbeffeggia, oltraggia, devasta. Impietosamente. Barbaramente. Forse questa mancanza di rispetto si può chiamare anche giustizia, si può chiamare anche equanimità. Va bene così, si può dire; va bene che tutti siano uguali davanti alla legge dell’eterno.

Però certe volte questa giustizia può anche fare impressione, suscitare emozioni più forti, più profonde riflessioni. Fa impressione, suscita un’emozione più forte, fa riflettere più profondamente vedere Edson Arantes do Nascimento che cammina con il deambulatore. A molti può anche sfuggire chi sia l’uomo che risponde al nome di Edson Arantes do Nascimento. Tutti invece sanno chi è Pelè.

Il primo è un uomo. L’altro è un prodigio. Davanti a Dio (si può chiamare Dio, il tempo?) sono la stessa creatura. Davanti agli uomini sono due persone diverse. Edson Arantes do Nascimento ha settantasette anni, è un uomo con il sorriso stanco, che cammina lento con il deambulatore, che si mantiene in piedi con equilibrio precario, barcollante, che vacilla, che saluta il pubblico alzando il braccio tremante, che ad un certo punto dice, con rassegnazione sapiente, forse con finta ironia: Se Dio (quel tempo chiamato Dio) mi ha dato delle scarpette nuove, perché non farle vedere?

Pelè invece non è un uomo, non ha età. E’ una fiaba, una narrazione, la leggenda del migliore calciatore di ogni tempo, campione del mondo per tre volte, 1281 gol in 1363 partite, Pérola Negra, la perla nera. ‘O Rei. Il Re.

Alla fine di Italia-Brasile, ai Mondiali del Settanta, Tarcisio Burgnich, il mastino che lo aveva marcato, disse così: prima della partita mi ripetevo che era di carne ed ossa come chiunque, ma mi sbagliavo.
Edson Arantes do Nascimento, è fatto di carne e ossa. Pelè no. Pelè è fatto di vento. E’ brezza folata raffica turbine uragano.

Il calcio che si sogna, che incanta, sbalordisce.

Una volta, Gianni Brera prese quel diamante sfolgorante che è “La sera del dì di festa” ( “ Dolce e chiara è la notte e senza vento”) ed elaborò una tessitura comparativa fra i versi di Leopardi e i movimenti di Pelè durante una partita. Alla fine Brera scrisse: “Mettete tutti gli assi che conoscete in negativo, poneteli uno sull’altro: stampate: esce una faccia nera, non cafra: un par di cosce ipertrofiche e un tronco nel quale stanno due polmoni e un cuore perfetti: è Pelè. Ma ce ne vogliono molti, di assi che conoscete, per fare quel mostro di coordinazione, velocità, potenza, ritmo, sincronismo, scioltezza e precisione”.

Qualche giorno fa, a Rio de Janeiro, sul palco della presentazione del campionato carioca, c’era un uomo con il deambulatore, che come tutti gli uomini di ogni epoca e di ogni luogo, ad un certo punto deve fare i conti con la legge del tempo. Ma nella memoria di chi lo ha visto, nell’immaginario di tutti e di ciascuno c’è la leggenda di quel mostro. Leggenda è una dimensione che supera la Storia, che mette insieme realtà e fantasia, che oltrepassa i confini degli accadimenti, delle circostanze.

Sul palco c’era un uomo che si confronta a viso aperto con il tempo e il destino, non si nasconde: si mostra, nella sua fragilità, nella sua decadenza. Tanto sa, lo sa anche lui, che quel sé che sta mostrando, quel corpo offeso, producono l’effetto di riattivare altre immagini, di ricondurle nel pensiero: la sua leggerezza, l’imprevedibilità dei suoi movimenti, la tecnica superba, il guizzo, l’incomparabilità dell’estro.

Il Re sa che dalla vita ha avuto molto. Forse pensa che quello che ha avuto gli basta. La fama, il successo, gli bastano. Ha battuto molti record. In uno però non c’è riuscito. A segnare cinque volte di testa in una sola partita, il Re non c’è riuscito. Quel record appartiene ad un altro giocatore, a João Ramos do Nascimento: Dondinho. Suo padre. Quel record non è riuscito a batterlo, Pelè. Forse è contento. A volte si pretende di lasciare alla propria origine qualcosa di insuperato. Forse Pelè ha voluto lasciare a Dondinho quei cinque gol di testa insuperati. Come una riconoscenza, un omaggio, una gratitudine verso il padre, i padri.

Il tempo non guarda in faccia nessuno. Il tempo è indifferente nei confronti dell’esistenza degli esseri. Non riconosce i re. Sa perfettamente di essere il vero Re, l’unico, l’assoluto, quello che nulla e nessuno può spodestare, quello al quale spetta l’eternità del trono.

Pelè odiava i calci di rigore. Li considerava un modo vile per segnare. Però, nella partita con il tempo, come in quelle di pallone, è previsto il calcio di rigore. Quello che chiude la contesa, la battaglia, che mette fine alla festa. La differenza è data dalla condizione che nella partita di pallone il rigore si può anche parare, in quella con il tempo non accade mai. Non serve la tecnica, non serve la bravura, non serve l’intuizione. Non serve nemmeno la fortuna. La partita con il tempo va così: si sa già chi sarà a segnare l’ultimo punto, e non c’è neppure la speranza della monetina, la possibilità di affidarsi alla sorte che decide. Forse si può – se si può- soltanto decidere se chiudere gli occhi o se guardare in faccia l’avversario. Forse ci si può dire quelle parole che dice l’imperatore Adriano alla fine dello struggente romanzo della Yourcenar: cerchiamo d’ entrare nella morte ad occhi aperti.



 
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