La resa di Berlusconi al cospetto dell'asse Di Maio-Salvini

Matteo Salvini
Matteo Salvini
di Massimo ADINOLFI
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Domenica 25 Marzo 2018, 20:33
Tutto è bene quel che finisce bene? I Cinque Stelle portano in cima all’assemblea di Montecitorio Roberto Fico, il leader dell’ala ortodossa del Movimento, mentre Forza Italia porta la senatrice Casellati, fedelissima berlusconiana, alla guida di Palazzo Madama. La Lega di Salvini fa un passo indietro, per tenere unito il centrodestra: non ottiene né una Presidenza né l’altra. In compenso costruisce l’alleanza da cui può nascere domani il futuro governo del Paese. Orbene, la si può raccontare così, come la racconta a sera Silvio Berlusconi, e allora si dirà, dinanzi alle telecamere, che «è una soluzione positiva per l’alleanza di centrodestra. Sono molto felice per questo accordo: per il bene del Paese, per gli italiani. Noi guardiamo agli interessi degli italiani con responsabilità».

Oppure la si può raccontare guardando al modo burrascoso in cui si è arrivati alle elezioni dei due Presidenti, e allora non son tutte rose e fiori. Anzi. Di mezzo c’è «l’atto di ostilità a freddo»: il colpo sferrato da Salvini, almeno secondo il Cavaliere. Non però quello di ieri, quello costretto a fare buon viso a cattivo gioco, ma quello della prima giornata di votazioni. Quello che aveva dovuto prendere atto che il M5S mai avrebbe votato il suo candidato, Paolo Romani. Quello che aveva allora provato a sedersi allo stesso tavolo dei grillini per ridiscutere di eventuali, nuove candidature, trovandosi dinanzi a un insuperabile rifiuto. Quello che aveva dovuto quindi subire la decisione presa autonomamente da Salvini, di far confluire i voti della Lega su Anna Maria Bernini, ottenendo dal M5S la disponibilità a votarla, o a votare un profilo simile. Quello che, infuriato, aveva fatto capire che, avendo Salvini deciso di fare di testa sua, l’unità del centrodestra era rotta, e Forza Italia sarebbe andata fino in fondo con Romani. Quel Berlusconi lì ha dovuto sbollire la rabbia nella notte fra venerdì e sabato. Per farsi poi da parte. Al suo posto, nel vertice che il centrodestra ha riunito ieri mattina, si è seduto il Berlusconi disponibile all’accordo coi pentastellati. E accordo è stato.

Cosa è successo da un giorno all’altro? Perché il Cavaliere non ha potuto che accodarsi, ingoiando il rospo di un’alleanza coi Cinque Stelle che sancisce la leadership di Salvini su tutto il centrodestra? Probabilmente non c’è una sola spiegazione. Perché sicuramente c’entra la mancanza di sponde sufficienti dentro il partito democratico: se Berlusconi avesse avuto numeri per ribaltare il gioco, lo avrebbe fatto. Ma c’entra anche la preoccupazione di rimanere fuori gioco nella partita più importante, quella che si apre a partire da domani, sulla formazione del nuovo governo. E c’entra, infine, la tenuta del partito. Cosa sarebbe successo se, a un Paolo Romani riproposto come candidato di bandiera di Forza Italia fossero venuti a mancare voti, mentre dall’altra parte Lega e Cinque Stelle si fossero eletti il Presidente del Senato? Non è un’ipotesi affatto peregrina, perché fra gli azzurri serpeggia tra molti la convinzione che ormai le carte le dà Matteo, e che per il centrodestra c’è un futuro solo dietro il leader leghista. In ogni caso, il voto di ieri dimostra che sull’accordo col M5S, Forza Italia si è divisa. Sarà pure unito il centrodestra, come da dichiarazioni ufficiali, ma nell’urna questa unità non si è vista. A Roberto Fico, alla Camera, che avrebbe dovuto contare su 480 voti, sono andati 422 voti. Mancano all’appello una sessantina di voti: la cifra del dissenso dentro Forza Italia.

Il M5S la sua parte, invece, l’ha fatta tutta. Senza tentennamenti. A fine giornata, i giornalisti hanno provato a strappare qualche manifestazione di imbarazzo fra i grillini che avevano votato la berlusconiana di ferro sullo scranno più alto di Palazzo Madama. In realtà, nel segreto dell’urna, i Cinque Stelle sono stati assolutamente compatti. È una dimostrazione di forza, ma anche di una direzione politica precisa, che il Movimento ha intrapreso forte di una solida intesa fra Di Maio e Salvini.

Ha voglia dunque il centrodestra di dichiarare che «le intese intercorse in questa fase non sono prodromiche alla formazione di un governo e che non avranno nessuna influenza sul percorso istituzionale successivo per il quale l’indicazione spetterà al Presidente della Repubblica». Parole formalmente corrette, ma che a malapena nascondono la sostanza di quanto è accaduto. Un passo alla volta, Di Maio e Salvini stanno in realtà provando a fare esattamente questo: un governo. Non è facile, naturalmente. Ma le difficoltà sono meno sul piano programmatico, che su quello politico. Ed è su questo piano che i due stanno lavorando: per il programma si vedrà poi. Per ora, Di Maio avvicina il Movimento al governo facendolo entrare nella logica delle mediazioni politico-parlamentari, senza di cui nessuna maggioranza potrebbe mai vedere la luce. Salvini, dal canto suo, impone la sua linea a tutto il centrodestra e intravede la possibilità di un primo incarico dalle mani di Mattarella: non è lui ad essere il capo della coalizione che ha più voti?

L’ombra, però, di quei sessanta voti che sono mancati a Fico rimane. Rimane il dissenso messo a verbale da Romani, che non ha condiviso la giravolta del Cavaliere; rimangono le parole di Brunetta, che Salvini leader non lo riesce a mandar giù e che non ne vuol più sapere di fare il capogruppo di Forza Italia alla Camera. La strada, dunque, è ancora disseminata di ostacoli. Quando si entrerà nel vivo delle consultazioni per la formazione del nuovo governo, si vedrà. Se il duo Salvini-Di Maio riuscirà a piegare le resistenze, che sono ancora forti tra gli azzurri. Se Berlusconi reggerà ancora il moccolo ai due, volente o nolente. Se i Cinque Stelle sapranno essere duttili abbastanza da accettare i compromessi necessari. Di sicuro, il ventaglio delle possibilità che, all’indomani del 4 marzo, erano sul tavolo si sta riducendo. Il partito democratico è sempre più decisamente collocato all’opposizione, e d’altra parte le soluzioni di marca istituzionale, i governi del Presidente e i governi “di tutti” stanno progressivamente retrocedendo sullo sfondo. Quei due, insomma, Salvini e Di Maio, fanno sul serio. E appaiono sempre più convinti di poter disegnare loro, da Palazzo Chigi, le regole del gioco della terza Repubblica del futuro. Che, a ben vedere, dopo il voto di ieri non è mica più tanto futura.



 
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