L'analisi/Parità di genere, la lunga notte che riassume i molti equivoci di cinque anni

L'analisi/Parità di genere, la lunga notte che riassume i molti equivoci di cinque anni
di Francesco G. GIOFFREDI
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Giovedì 30 Luglio 2020, 13:19 - Ultimo aggiornamento: 16:55
Dieci ore come desolante epitome di un intero quinquennio. Una seduta consiliare che diventa la quarta di copertina di una legislatura non esente da contraddizioni, preda spesso di veti, accordi al ribasso, inerzia. Sulla parità di genere, innanzitutto. Ma non solo, perché è significativo l’elenco dei provvedimenti rimasti incagliati «nei meandri dell’assemblea» - per citare un’espressione dell’ultimo post facebook di Michele Emiliano: Piano rifiuti, Legge sulla Bellezza, riordino del 118 sono le vittime più illustri, altri testi negli anni hanno raggiunto il traguardo con molta fatica e dopo lunghe e travagliate gestazioni. Leggi troppe volte annunciate, sempre sul punto di sbarcare in aula, ci siamo quasi, tutto pronto o forse non più, leggi soffocate magari dalla paura di una maggioranza apparentemente solida nell’aritmetica dei seggi, e però precaria negli equilibri, nella comunanza d’intenti, attraversata da profonde linee di frattura, tenuta insieme dalla necessità e dalla ragion di stato (o di status, il proprio). Quante volte i franchi tiratori hanno spiazzato Emiliano? Tante. E molto spesso per lanciare messaggi di malcelato disagio.
Quando un provvedimento si sbriciola alla prova dell’aula, com’è successo l’altra notte, la colpa è sì di tutti, ma lo è soprattutto della maggioranza di turno, che teoricamente dovrebbe sempre avere i numeri e la forza per scommettere su un qualsivoglia disegno di legge, per difenderlo a scudo alto e infine per approvarlo sfidando le prevedibili trappole delle minoranze. Diversamente, vuol dire che scarseggiano mezzi e volontà, politici e istituzionali. E lascia ancor più sbigottiti quando tutto ciò accade su un tema sensibile, trasversale e basilare qual è la parità di genere.

La danza dell’ipocrisia andata in scena l’altroieri in Consiglio è una rappresentazione plastica del quinquennio. Certo, il centrodestra ha intasato i lavori d’aula con 2mila emendamenti, classico filibustering d’altri tempi. Ma il centrosinistra ha avuto a disposizione ben cinque anni per ricucire la ferita della parità: i disegni di legge (tre) sono rimasti impolverati nei cassetti, il confronto pubblico è stato puntualmente eluso nonostante le sollecitazioni e gli appelli ad accorciare il gap uomo-donna. Né, a un mese e mezzo dalle elezioni regionali, Emiliano e i suoi alleati potevano illudersi di trovare in aula il centrodestra in assetto collaborativo, pronto a srotolare tappeti rossi alla maggioranza. La politica, come diceva Rino Formica, «è sangue e merda», e a ridosso delle urne questa inclinazione pulp s’accentua vertiginosamente. Emiliano, che nel cuore della notte ha organizzato la ritirata del centrosinistra dall’aula, in un atto di apparente resipiscenza ha poi detto di volersi «assumere la responsabilità politica di non essere riuscito a convincere la maggioranza in Consiglio ad approvare la doppia preferenza di genere». Non basta tuttavia il mea culpa a fil di sirena per emendare colpe e dissezionare le responsabilità. La tiepida, se non gelida, propensione del centrosinistra alla doppia preferenza ha ragioni più profonde e censurabili, di merito e di metodo.

La prima, la più banale: una maggioranza di soli uomini (unica donna è la subentrata nel 2018, e ben corazzata in fatto di preferenze, Anita Maurodinoia) è più propensa a tutelare le rendite di posizione elettorali e lo status quo. La seconda: le liste, tanto nel centrosinistra quanto nel centrodestra, erano e sono ormai in avanzata stesura senza alcun vincolo di genere, imbastite da entrambi i fronti perlopiù sui grandi portatori di voti (rigorosamente uomini), sintomo - molto meridionale, molto pugliese - della sindrome da bulimia del consenso, a cui non è certo immune il centrosinistra emilianiano. Anzi. La terza ragione: il governatore, in un reciproco patto-“ricatto” politico, negli anni ha assecondato o quantomeno ignorato le ritrosie dei suoi consiglieri sulla doppia preferenza. L’uno non voleva forzare la mano su un tema “marginale” per non sfilacciare la già malmessa maggioranza, gli altri erano (quasi tutti, non tutti) impegnati a raccogliere qualche mollica scivolata dalla tavola del presidente e della giunta o dal reticolo di Dipartimenti e Agenzie a lui fedeli. Appunto: un patto di potere, sicuramente asimmetrico, sbilanciato, che ha finito per marginalizzare sempre più il Consiglio regionale. Fino all’irrilevanza, e fino a ridurlo a teatro delle ombre, a luogo della messinscena, a emiciclo della non-decisione, perché tanto si sceglie e si fa politica altrove, nelle stanze del presidente o sulla piazza social, dove il progressismo e il riformismo (anche quello pro parità di genere) sono abbondantemente dichiarati più che praticati. Ecco: la legge sulla doppia preferenza non poteva che infrangersi contro questo muro, e forse lo sapevano già tutti che sarebbe andata così.

A confermare e amplificare i paradossi s’è aggiunto poi l’atto finale della surreale ultima seduta del Consiglio: la mozione dell’opposizione che di fatto avrebbe impedito a Pierluigi Lopalco - l’epidemiologo a capo della task force regionale sul coronavirus - di candidarsi. La mozione era stata approvata col voto segreto e perciò col decisivo apporto di frange della maggioranza. Solo la ritirata del centrosinistra - orchestrata da Emiliano - ha fatto saltare tutto, dal numero legale alla doppia preferenza fino alla mozione anti-Lopalco. Cosa ci segnala questa coda avvelenata? Due cose. La prima: più di qualche consigliere di maggioranza ha voluto recapitare al governatore un ennesimo messaggio di fuoco, tanto sulla candidatura dall’alto del professore-consulente (e sulla sua possibile ascesa al ruolo d’assessore), quanto sulla parità di genere. La seconda: la reazione furibonda del governatore, che ha lasciato l’aula, dimostra che era stato pizzicato un nervo scoperto, cioè quello della cooptazione a ruota libera di volti e nomi - vero asset di governo del quinquennio. Di sicuro, dopo che cinque anni fa Emiliano esordì in Consiglio promettendo ai 50 eletti condivisione e dialogo su tutto, brucia tanto aver chiuso la consiliatura andando sotto, con un flop, perdendo il controllo della cloche in una torrida serata di luglio.

In tutto ciò, il confronto sulla parità di genere era già stato degradato a baruffa da cortile e a materia di mercanteggiamento, tra assalti alla diligenza con emendamenti fuori traccia (quello sulla sospensione del consigliere-assessore, per esempio) e trattative al ribasso sull’obbligo di rappresentanza nelle liste (60-40%, anzi no 70-30%). Ognuno con i propri calcoli, col proprio pallottoliere, con i propri timori, da sinistra a destra, per agevolare se stessi o per danneggiare l’avversario, e buonanotte alla nobile causa. Il corso delle cose poteva forse essere deviato, sostiene più di qualcuno: a un certo punto il centrodestra s’era pure detto disponibile a decapitare gli emendamenti e a votare la doppia preferenza tout court. Bastava poco o forse no, perché in realtà pesava la reciproca impuntatura sul 60-40%, chi a favore (Emiliano) e chi contrario (il centrodestra). Questione, si sa, di convenienza politica e di altre partite in ballo.
Ora, spetta al governo “commissariare” la Regione e imporre la norma, tra non pochi dubbi procedurali: uno smacco politico-istituzionale senza precedenti, dopo una notte in Consiglio che ha raccontato molte cose di un’epoca, in dieci ore che sembravano cinque anni.
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