Umanitarismo e umanità: la lezione del Papa sui migranti

di Massimo ADINOLFI
4 Minuti di Lettura
Mercoledì 2 Novembre 2016, 15:29
Accogliere i migranti e i rifugiati, ma distinguere. Non chiudere le frontiere, ma regolare. E integrare, certo, non ghettizzare. E dunque calcolare quanti possono essere integrati. Così ha parlato ieri Papa Francesco, di ritorno da una Svezia meno aperta e generosa che in passato, che però Bergoglio ha tenuto anzitutto a ringraziare per le politiche di accoglienza che anche in passato hanno permesso a molti argentini, a molti sudamericani, in fuga dalle dittature militari, di rifarsi una vita in Europa. In passato: oggi è più difficile, e il Papa lo riconosce. Perché accogliere non vuol dire far entrare chiunque, e fare entrare comunque: vuol dire invece predisporre strutture, servizi, risorse. Vuol dire fare opera di educazione, creare percorsi di cittadinanza, favorire il dialogo e la reciproca comprensione. Tutte cose che richiedono un lavoro paziente, una fitta tessitura di azioni, un serio impegno economico, sociale, culturale; richiedono persino la costruzione di un consenso diffuso, per evitare reazioni di rigetto, paure, risentimenti nella cittadinanza.

Avere presente tutte queste condizioni, e vincolare ad esse la parola del conforto e della solidarietà significa tenere un discorso intensamente politico, con quell’avverbio che il Pontefice scandiva con grande convinzione: «politicamente». Politicamente si paga «una imprudenza nei calcoli, nel ricevere di più di quelli che si possono integrare».

Ma che le politiche sull’immigrazione richiedano l’arte prudente di un calcolo: questo è proprio quello che non ci si aspetta da un Papa spirituale. Il fatto è che però Papa Francesco non è un Papa spirituale, se con ciò si intende un Papa ignaro della struttura del mondo, o della complessità del suo governo. Venuto quasi dalla fine del mondo, vicino ai popoli e ai Paesi meno sviluppati, con poca simpatia verso le grandi accumulazioni di ricchezza e le diseguaglianze generate dall’«imperialismo economico» del mercato, Bergoglio non ci ha messo molto a farsi la fama del Papa di sinistra. Per certi ambienti cattolici, anzi, José Mario Bergoglio è un comunista. Lo scorso anno, durante il volo che lo portava in America precisò perciò di essere certo di non avere detto una sola cosa che non fosse già contenuta nella dottrina sociale della Chiesa. E aggiunse scherzosamente: «Ho dato l’impressione di essere un pochettino più “sinistrino”, ma sarebbe un errore di spiegazione».

Ebbene, sarebbe, di nuovo, un errore di spiegazione, se le parole pronunciate ieri venissero giudicate poco coerenti, o troppo prudenti, o francamente deludenti. Il Papa che saluta con un cordiale buongiorno dal balcone di piazza San Pietro; quello che va a scegliersi gli occhiali dall’ottico o gira con la sua borsa nera sotto mano; il Papa che, soprattutto, compie un viaggio di portata storica, a Lampedusa, nel 2013, e lì cita, nel corso dell’omelia, le parole con cui Dio si rivolge a Caino – «dov’è tuo fratello?» – per fare i popoli europei e l’Occidente responsabile delle migliaia di vite sommerse dai flutti del mare, quel Papa è lo stesso che ieri ha mostrato con grande chiarezza e lucidità che il senso di umanità è una cosa, il generico umanitarismo un’altra. Che la politica non può minimamente trascurare le conseguenze delle decisioni che è chiamata a prendere. Che deve avere una sua morale, ma questa morale non è assoluta; deve bensì mediarsi con la realtà. Né alla Chiesa cattolica come istituzione è mai appartenuto l’atteggiamento dei santi, dei mistici o degli anacoreti. E nemmeno quello delle anime belle.

La questione dell’immigrazione è, insomma, una questione enorme. Che non si affronta con astratte affermazioni di principio, e nemmeno soltanto con l’appello ai buoni sentimenti. Che ci vogliono, naturalmente. Ma ci vuole anche il calcolo, dice Papa Francesco. Cioè una saggia commisurazione di mezzi e fini.
È evidente che il Pontefice non intendeva con ciò fare sconti a quei popoli che si sottraggono ai doveri dell’accoglienza. La Svezia non è l’Ungheria, e la prudenza non è sinonimo di miope egoismo o di gretto nazionalismo. Se anzi l’Europa riuscisse ad imporre uno stesso atteggiamento di apertura regolata, se facesse suo il calcolo di Bergoglio, se fosse in grado di gestire in maniera coordinata i flussi, con la collaborazione leale di tutti i membri dell’Unione, potrebbe dare una risposta di gran lunga più efficace di quella che oggi mette sotto tensione Paesi rivieraschi come l’Italia e gonfia e altera la percezione degli eventi prestandogli i contorni del fenomeno incontrollato, e perciò tanto più pericoloso.

Ma per questo ci vuole una buona dose di razionalità politica che, bisogna dirlo, ieri sembrava trovarsi nelle parole del Pontefice della Chiesa cattolica romana, più di quanto non accada nei discorsi di certi leader politici europei.
© RIPRODUZIONE RISERVATA