La pandemia e il nuovo linguaggio tra Did e Dad

La pandemia e il nuovo linguaggio tra Did e Dad
di Renato MORO
5 Minuti di Lettura
Giovedì 31 Dicembre 2020, 17:20 - Ultimo aggiornamento: 17:21

L'hanno chiamato annus horribilis, ma l’eleganza della lingua di Cicerone poco si adatta alla durezza delle prove che il 2020 ci ha imposto senza diritto di replica e senza possibilità di fuga. Anche un anno da dimenticare, però, lascia qualcosa che arricchisce la quotidianità, apre a nuove abitudini che restano nell’anno che verrà e in quelli che seguiranno. 
Secondo il New York Times, ha scritto sul Corsera Beppe Severgnini, l’annus horribilis ha reso comuni espressioni prima sconosciute. La più usata, che rimanda un po’ all’archeologia delle telefonate con i cellulari ancora orfani di ripetitori, è “Non ti sento!...”. Merito - o colpa - dei contatti sul web, delle videoconferenze, delle riunioni, delle lezioni e dello smartworking che hanno coinvolto miliardi di persone trovatesi da un giorno all’altro nella necessità di continuare a lavorare e tenere relazioni sociali restando a distanza. Spesso con connessioni assolutamente inadeguate. 
Lo stesso anno ha sdoganato e reso popolare l’uso dell’hastag, quel segno che fino al dicembre scorso sembrava essere patrimonio esclusivo degli esperti frequentatori dei social: #celafaremo, scrivevamo tutti nel marzo scorso, tra un inno d’Italia cantato sul balcone e una valanga di lievito da impastare in cucina. Ma è nell’esplosione delle sigle (compresi acronimi e acrostici), nel linguaggio abbreviato tracimato dai laboratori degli scienziati e dagli uffici stampa della politica fino a coinvolgere tutti quanti, che l’anno ormai concluso ha dato il meglio di sé. Influenzando anche i giornali: mai, fino a qualche mese fa, un caporedattore avrebbe “passato” un titolo contenente una sigla, escluse quelle dei partiti più conosciuti e dei sindacati. Dopo l’arcaico tvb, roba da sms che stanno a Instagram o Tik Tok come la tavolette cerate dei romani stanno agli iPad supertecnologici, la sigla ha conquistato la sua dignità nel linguaggio contemporaneo, oscurando quasi del tutto le parole di riferimento.
Cominciamo da quella più usata e temuta negli ultimi mesi. Covid 19 è l’abbreviazione che sta per coronavirus disease 19, più o meno sindrome da coronavirus 2019. Nessuno scriverebbe questo breve romanzo per citare il virus del momento e nessuno, a cominciare dall’Accademia della crusca che di fatto ha deciso di non decidere, si permette più di attribuire il giusto sesso, quello femminile, alla Covid.
Come nessuno, qualora si trovasse a saperlo, si sognerebbe di parlare dell’ultimo “decreto del presidente del Consiglio dei ministri” quando basta un semplice dcpm, “sparato” anche nei titoloni dei giornali (orrore). Da parte sua, va detto, il premier ce l’ha messa tutta per farci imparare quella sigla a memoria, vista la raffica di decreti fin qui partoriti dalla sua scrivania. 
Ma torniamo al Covid. Con lui, o lei se siete dei puristi, abbiamo preso confidenza con l’Rt (erre con ti), che è l’indice del contagio, e con L’R0, che è l’indice di riproduzione del virus nella fase iniziale dell’epidemia. E poi abbiamo imparato che non c’è scampo se negli ospedali, nei mezzi pubblici e in strada non usiamo un Dpi, che potrebbe sostanziarsi in una Ffp2 o in una ancor più sicura e costosa Ffp3. Le mascherine sono state raccomandate e poi imposte da un Iss che non è la stazione spaziale internazionale (International Space Station), ma l’Istituto superiore di sanità. Tutto, ovviamente, sotto l’egida dell’Oms, l’organizzazione che a marzo dichiarò ufficialmente l’esistenza di una nuova pandemia.
E che dire dei risvolti nella povera, martoriata sanità pubblica? Il Covid ha fatto saltare il banco dei Lea, i livelli essenziali di assistenza, messo a nudo le carenze croniche dell’Adi, l’assistenza domiciliare integrata, tenuto a battesimo le Usca (unità speciali di continuità assistenziale) per la cura a domicilio dei casi positivi di lieve entità e mandato in disoccupazione gli sportellisti del Cup per via dello stop - dettato da ragioni di cautela - alle visite mediche in regime di Alpi (Attività in libera professione intramoenia). Persino un ospedale come il “Vito Fazzi” di Lecce ora trova più comodo nascondersi dietro una sigla. “Scusa, dove hanno ricoverato tua suocera?”. “Al Dea”. “Ah!, pensavo in ospedale...”. Immaginate che tragedia se dovessimo chiamarlo col nome completo: Dipartimento emergenza e accettazione. Comprensibile, infine, lo spaesamento del nonno quando si rende conto di essere finito in una Rsa e non in una tranquillizzante casa di riposo.
D’altro canto la politica non è da meno. In un momento storico in cui assistiamo a un profluvio di tavoli per il Cis, che è il contratto istituzionale di sviluppo da non confondere col codice identificativo che la regione assegna ai B&B, ci dividiamo parteggiando per il Mes o contro il Mes. Magari senza nemmeno sapere cosa sia il Meccanismo europeo di stabilità. Non tutti, infatti, mastichiamo di questioni economiche, ma chi ne conosce i meccanismi certamente sta pensando come conciliare i benefici del Cis e, sotto il controllo del Mes, dare una spinta alle Zes che sembrano essere l’idraulico nel giorno in cui si rompe il tubo del lavandino: arriva, sta arrivando, è qui, no non arriva, forse ha sbagliato strada ma quasi certamente non arriva per questa settimana. E intanto il condominio si allaga. Le Zone economiche speciali sono esattamente così. 
E la scuola? Se solo un anno fa ci avessero chiamato per chiederci di scegliere per i nostri figli la Did o la Dad, avremmo forse risposto che il cucciolo di casa preferisce vedere un cartone di Tom e Jerry. Ora, invece, di didattica a distanza o integrata discutiamo a pranzo e a cena.
Insomma, in questo annus horribilis in cui abbiamo finalmente scoperto che tocilizumab non è una parolaccia atzeca ma un mezza speranza di sfuggire alla polmonite interstiziale, il presente e il futuro sono segnati dalle sigle.

Senza accorgerci abbiamo modificato il nostro modo di comunicare, finendo per imitare quei ragazzi che nei messaggi abbreviano di tutto facendo storcere il naso a prof e genitori. E una sigla su tutte, solo quella, ora può salvarci restituendoci il piacere di uscire di casa, abbracciarci e parlarci a quattr’occhi senza Dpi, liberi da ogni Dpcm e dai figli in Dad e finalmente dimentichi dell’Rt quotidiano: BNT162b2. Quando si chiamava così era ancora un esperimento in laboratorio, ora che è cresciuto si chiama vaccino. E di cognome da Pfizer. Buona puntura a tutti.

© RIPRODUZIONE RISERVATA