Occupazione: le incertezze in Puglia nel silenzio della politica, a Bari come a Roma

di Antonio MANIGLIO
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Martedì 15 Febbraio 2022, 05:00

In Puglia non tira una buona aria. Le notizie dal fronte del lavoro hanno un segno univoco: fabbriche che chiudono, esuberi, cassa integrazione, licenziamenti. La Puglia del 2021 che cresce del 6,5% è già uno sbiadito ricordo. Anche se già in quel dato positivo c’era un annuncio di provvisorietà. L’incremento dell’occupazione, ad esempio, pari a 84.600 nuove unità, era in gran parte (l’87%) frutto di assunzioni a tempo determinato e quindi precarie. A conferma di un clima di insicurezza che già si respirava nel sistema produttivo. Oggi siamo in un’altra fase. Gli aumenti vertiginosi dell’energia elettrica (pari al 450% in un anno, secondo Confindustria) e quelli delle materie prime (oltre il 70%), oltre che scaricarsi nel carrello della spesa falcidiando i redditi della famiglie, stanno strozzando la produzione e le imprese procedono ormai diffusamente alla riduzione o al blocco delle attività. L’ottimismo dei mesi scorsi, con l’Europa che allentava i vincoli di bilancio e immetteva nel sistema economico risorse pari a 800 miliardi di euro, è andato a farsi benedire. L’immediato futuro si presenta piuttosto come un concentrato di incertezze che né i bonus o i sussidi o gli stessi fondi del Pnrr aiutano a rischiarare. 

La Puglia naturalmente è dentro questa tempesta. Prima di questa crisi la task force per l’occupazione, a conferma della fragilità di pezzi rilevanti del tessuto imprenditoriale regionale, aveva sul tavolo ben 39 crisi aziendali che coinvolgevano circa 4000 lavoratori. Le cronache di questi giorni non lasciano dubbi: da Foggia a Lecce si allunga l’elenco delle imprese che cessano l’attività e procedono a licenziare. Torna drammaticamente il tema del lavoro e l’ampliarsi delle fasce di disagio sociale e delle povertà. Naturalmente non esistono ricette facili per frenare questo declino. Ma non è neppure ammissibile che sulla crisi industriale e occupazionale che attraversa le Puglie, e che può diventare sistemica, si siano mobilitati il sindacato, le prefetture e i vescovi mentre i vertici della regione si limitano a balbettare parole di circostanza. 

La politica, a Roma e a Bari, non può essere lontana e assente dai luoghi dove crolla la certezza del posto di lavoro e si afferma l’insicurezza e la disperazione. E deve esercitare responsabilmente la sua funzione mettendo in campo idee, progetti, risorse. E ciò a maggior ragione quando si sbarrano i cancelli di aziende che sono all’avanguardia nell’innovazione tecnologica. È il caso della Bosch di Bari: come è possibile che una fabbrica di eccellenza, che ha rivoluzionato il motore diesel con il common rail, possa diventare una bomba sociale con oltre 700 lavoratori in esubero? La vicenda Bosch non è una delle tante vertenze in atto. È piuttosto il paradigma perfetto per capire cosa può diventare la “transizione ecologica”. È utile allora riflettere sugli effetti collaterali di alcune buone intenzioni quando queste, come nel caso di Bari, si traducono in fatti e impattano frontalmente l’attività produttiva.

Il passaggio dalle auto diesel a quelle elettriche comporta la fine di alcune produzioni, la chiusura del relativo ciclo produttivo, la “messa in liquidazione” dei lavoratori che non servono più (i famosi esuberi). Questo è il riassunto della crisi Bosch.

Un disastro sociale. Come non capire allora, per dirla brutalmente, che la transizione ecologica senza una riconversione occupazionale e produttiva che tuteli le competenze, le professionalità, il lavoro delle persone è solo l’ennesima e gigantesca fregatura ai danni dell’ultimo anello della catena, ossia i lavoratori? E che l’esaltazione acritica di un nuovo modo di produrre tutto da inventare e senza reti di protezione porterà con sé nuove ingiustizie e altre diseguaglianze? Ecco perché serve la (buona) politica. Per non ritrovarci tra qualche anno, come è capitato con la tanto mitizzata globalizzazione, a contare morti e feriti abbandonati al loro destino di perdenti. E serve qui in Puglia dove nei prossimi anni si dovranno, finalmente, decarbonizzare Cerano e l’ex-Ilva. 

Come si arriverà a quell’appuntamento, con migliaia di lavoratori che saranno espulsi dal ciclo produttivo? È evidente che non tutto può essere caricato sulle spalle della Puglia e che serve una politica industriale nazionale. La riconversione ecologica non può coincidere con la cancellazione di migliaia di posti di lavoro. Impone di fare ricerca industriale, innovazione produttiva, formazione. E richiede incentivi pubblici mirati per sostenere gli investimenti privati. Fantasticherie? Proprio in queste settimane Stellantis, quarto gruppo automobilistico al mondo, ha sottoscritto un accordo con il governo nazionale, che ha messo sul tavolo 370 milioni di euro, per riconvertire lo stabilimento Fiat di Termoli nella prima gigafactory italiana per produrre batterie per auto elettriche. In tal modo si sono messi in sicurezza i 2.400 posti di lavoro e si è indicata una direzione strategica: anche nel mezzogiorno c’è un’altra possibilità di sviluppo.

E la Puglia? Chi si occupa seriamente di aprire una vertenza nazionale con Bosch? E quale può essere una possibile risposta che non sia di tipo assistenziale ma, come insegna l’esperienza del Molise, di rilancio industriale? Gli stessi fondi del Pnrr, oltre che abbellire le stazioni Fse, i lungomari e i parchi, possono essere incrementati e destinati a riconvertire e innervare il sistema industriale pugliese? 

Non si vuole disturbare il manovratore, ma nell’agenda politica regionale piena zeppa di rimpasti e polemiche, di congressi e candidature, forse due righe potrebbero essere utilizzate per appuntarsi il seguente tema: crisi aziendali, licenziamenti, riconversione ecologica e produttiva, lavoro in Puglia. O no?
 

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