L'incapacità di dimenticare. La condanna della memoria

L'incapacità di dimenticare. La condanna della memoria
di Antonio ERRICO
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Domenica 9 Maggio 2021, 05:00

Quando si dice che questa civiltà ha quasi del tutto rinunciato alla memoria, forse si dice qualcosa di inesatto. Forse sarebbe meno inesatto se si dicesse che la memoria è coerente con le forme di questa civiltà: molteplici, spesso frammentate, continuamente, vertiginosamente mutanti, spesso realmente o apparentemente incoerenti, certamente fluide, provvisorie, certamente complesse. Tutto ha inizio e si conclude molto rapidamente. Si fa appena in tempo ad apprendere qualcosa, che dopo poco tempo è già superato. Si ricorda disordinatamente, senza un ordine sequenziale.

Fino a un certo punto la memoria ha avuto una struttura e una modalità di trasmissione culturalmente definite. Fino ad un certo punto è stata memoria lunga, che non si interrompeva, che passava tra le generazioni senza fratture, senza stravolgimenti. Perché durevoli erano le forme con cui la civiltà si rappresentava e i cambiamenti avevano passi lenti. La memoria aveva il tempo di adattarsi, la possibilità di modellarsi alle nuove forme che si definivano gradualmente. Poi “c’è stato in primo luogo il mutamento epocale che ha allontanato vertiginosamente il presente dal recente passato”, sostiene Adriano Prosperi nel suo recente saggio intitolato “Un tempo senza storia”: la rivoluzione informatica o più in generale “il trionfo di una cultura del mutamento e del progresso tecnico e scientifico che ha accelerato ogni oltre precedente la velocità della trasformazione del mondo”.

L'immensa e informe valanga di cose

Così adesso si ha l’impressione che la memoria non abbia il tempo di adattarsi e modellarsi, che la sua presenza e la sua incidenza nel contesto dei fenomeni sociali e culturali sia quasi ininfluente. Ma forse si tratta di una impressione falsa. La memoria di questa civiltà ha l’identica fisionomia della civiltà. Instabile, fluttuante, sempre destinata al breve temine, sempre assediata dalle incertezze, suggestionata da espressioni diverse, attratta dalle superfici, sedotta dall’usa e getta. Come sono scomparse le grandi narrazioni, allo stesso modo è scomparsa la grande memoria. Le grandi narrazioni sono state sostituite dai frammenti; la grande memoria è stata sostituita da una memoria frammentaria. Però non è vero che non esista memoria. Forse è vero che si tratta di una memoria che si ritrova davanti una immensa e informe valanga di cose da ricordare e non può distinguere, selezionare quello si deve necessariamente ricordare, quello che si può anche dimenticare; non può perché la valanga immensa ed informe non permette di distinguere, di selezionare.

Così la memoria viene travolta diventando parte della valanga e non può più proporsi e funzionare in modo strutturato, più o meno regolare, non può costituirsi come riferimento.

Il problema, se così si può dire, della memoria di questa civiltà, consiste nel fatto che questa civiltà non consente di dimenticare.

Ma una civiltà è esattamente come ciascuna delle creature che ad essa appartengono.

Che hanno bisogno di dimenticare, di consegnare alla macina dell’oblio che gira senza sosta quello che si può dimenticare perché un altro ricordo ormai lo contiene.

E’ questo che la memoria non riesce più a fare. Non riesce più a dimenticare le cose che diventano superflue, inutili, eccessive. Si tiene tutto, in modo inevitabilmente ammassato, confuso, disorganico, scomposto, disarticolato. Non distingue il ricordo essenziale da quello inessenziale, quello significativo da quello banale, l’originale dalla copia. Non cataloga, non organizza in categorie.

La trasmissione attraverso il racconto

In una delle sue “Finzioni” intitolata “Funes o della memoria”, scritta nel 1942, Jorge Luis Borges aveva visto - lui, cieco, con la stessa sapienza inconsapevole, con la stessa chiaroveggenza paurosa del personaggio di Ireneo Funes – il modo in cui un giorno gli uomini sarebbero vissuti: costretti dalla sterminata memoria delle tecnologie a ricordare tutto, anche quello che non avrebbero voluto.

Non è vero che questa civiltà abbia rinunciato alla memoria. L’una e l’altra hanno, invece, una coerenza straordinaria. A volte si completano. A volte si rispecchiano. Sono annodate dalla reciprocità. La memoria è nel modo in cui la civiltà le consente di essere. La civiltà è nel modo in cui la memoria la racconta con strumenti che non sono, non possono essere più quelli che sono stati un’altra volta: per secoli e secoli. Forse è definitivamente scomparsa la trasmissione della memoria attraverso il racconto che una generazione fa ad un’altra, per esempio. Forse questa modalità è scomparsa perché la generazione che accoglie l’altra che arriva ha difficoltà a mettere ordine nella memoria e di conseguenza a dare organizzazione, organicità, continuità al racconto. Forse è questo, forse è altro di poco o molto diverso. Questa civiltà non ha rinunciato alla memoria. Forse, molto semplicemente, ha elaborato una nuova forma di memoria, coerente con la molteplicità delle forme, con la diversità delle esperienze, con il rapporto che ha stabilito con il passato, con la Storia, con il presente.

Ogni cosa rassomiglia al tempo, inevitabilmente.

Le cose vanno così. Non possiamo farci niente, e forse nemmeno vogliamo farci niente.

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