La corsa a ostacoli per diventare medici

La corsa a ostacoli per diventare medici
di Carlo CIARDO
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Martedì 4 Settembre 2018, 13:20
La vita è tutta un quiz, per dirla con Arbore. Si potrebbe riassumere così il circolo vizioso nel quale si avviluppa il Servizio sanitario nazionale con riferimento alla ormai cronica carenza di personale medico. Ciò che accade non è il risultato beffardo dettato dal destino cinico e baro, ma una ben chiara impostazione del sistema di formazione e selezione.  Basti ripercorrere ciò che avviene in questi giorni per rendersene conto. A breve i neo diplomati che vogliono iscriversi ad una facoltà di Medicina e Chirurgia dovranno fare i conti con il numero chiuso e, quindi, i test d’ingresso nazionali. Questo vale sia per le università pubbliche che per quelle private, con l’unica differenza che per le prime la graduatoria è nazionale e quindi le scelte vengono fatte in base allo scorrimento dei posti disponibili, mentre per le università private vi è una graduatoria per ogni singolo ateneo.

In questa corsa, che ha tutto il sapore della sfiancante gara dei 5000 siepi, questo è solo il primo passo. Se il ragazzo con l’aspirazione a diventare medico ha sommato bravura e fortuna ed è così riuscito ad essere ammesso in una delle facoltà sparse per lo stivale, non può ancora vedere la luce in fondo al tunnel e non solo per via del lungo percorso universitario. Al termine degli studi, infatti, vi è l’ulteriore scoglio delle scuole di specializzazione, siccome il laureato in medicina per poter entrare nel mondo del lavoro deve partecipare alla selezione nazionale (fino a qualche anno fa era per singole scuole di specializzazione) alla quale il candidato può partecipare, ben conscio del fatto che ogni branca ha numeri contingentati differenti.

Ora poniamo il caso che l’ipotetico ragazzo sia preparato ed accompagnato da un pizzico fortuna, tanto da essere riuscito ad essere incluso meritoriamente nella graduatoria nazionale e, quindi, essere stato ammesso ad una delle scuole di specializzazione sparse per l’Italia (che ben può essere differente dall’Università nella quale ha studiato). A questo punto intraprende un iter formativo, retribuito con un borsa di studio, che varia da 4 a 6 anni per concludersi con il conseguimento di un titolo riconosciuto dal Servizio Sanitario Nazionale e utile per la sottoscrizione di un contratto con una struttura privata, per partecipare ad un concorso pubblico o avviarsi verso la libera professione.

Il risultato è che abbiamo una selezione che prevede almeno 3 sbarramenti (università, specializzazione, lavoro), altamente formativa, ma che, nel contempo, non consente di soddisfare le reali esigenze di personale sanitario di cui necessita il nostro sistema assistenziale, atteso che le quote, i numeri chiusi, gli accessi contingentati non sono parametrati sulle reali modificazioni epidemiologiche della popolazione, ma seguono ragioni di budget o strutturali.

Per meglio dire, ogni limitazione tiene conto della adeguatezza delle strutture universitarie atte ad accogliere un numero massimo di studenti ovvero è rapportata alle borse di specializzazione che vengono stanziate per le diverse branche. La stessa assunzione nelle strutture pubbliche trova, poi, l’altro limite del blocco previsto dal Patto per la Salute del 2001 che ha sancito il vincolo dell’1,4% per la spesa del personale.

Per avere un’idea della portata di questo deficit sanitario si pesi che se si dovessero realmente soddisfare le esigenze di personale medico i sindacati di categoria hanno stimato che le scuole di specializzazione dovrebbero aumentare i posti di almeno 2000 unità e prevedere un incremento del numero delle borse disponibili di 9000 per le scuole di formazione specialistica e 3000 per quelle di medicina generale.

Sia ben chiaro che non c’è una carenza di medici in termini assoluti, atteso che ogni anno abbiamo circa 9.000 laureati in medicina e chirurgia, ma rispetto a questi numeri lo Stato eroga 6.000 borse per la formazione degli specialisti e poco meno di 1.000 per la medicina generale. Il calcolo è semplice. Ogni anno restano quindi fuori 2.000 medici che non hanno la possibilità né di lavorare in ospedale né di diventare medici di famiglia, ma solo fare delle sostituzioni.

Tutto ciò ha un risvolto messo in evidenza di recente dalla Federazione dei medici di medicina generale, secondo la quale, per i soli cosiddetti medici di famiglia nei prossimi 5 anni ci sarà l’uscita per pensionamento di 45.000 unità che per larga parte non verranno sostituite. Se poi si allunga lo sguardo a 10 anni e lo si allarga ricomprendendo anche i medici ospedalieri, si stima la fuoriuscita di 33.392 medici di base e di 47.284 medici ospedalieri, con un riverbero facilmente intuibile rispetto alle future liste d’attesa ed alle inefficienze dell’assistenza territoriale e di quella ospedaliera. Tanto è vero che il Ministero della Salute ha svolto una serie di audizioni e ha compulsato le Regioni per avere un quadro del personale.

È sempre attuale quel detto secondo il quale “ognuno è il miglior medico di se stesso”, ma di questo passo non vorremmo fosse stato preso troppo alla lettera.

 
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