Diego, la palla e l'archetipo della preda "magica"

Diego, la palla e l'archetipo della preda "magica"
di Stefano CRISTANTE
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Giovedì 3 Dicembre 2020, 14:09 - Ultimo aggiornamento: 14:10

La morte di Diego Armando Maradona è stata una di quelle rare notizie in grado di saturare tutti i principali spazi di comunicazione mondiali in pochissimi minuti. Le testate giornalistiche dell'intero pianeta ne hanno dato la notizia in prima pagina con enorme risalto, e nel giro di qualche minuto i profili Twitter e Fb di mezzo mondo hanno dato il via a un'operazione di commemorazione collettiva senza precedenti.
Anche a distanza di un giorno o due il boato telepatico tra terrestri sta continuando, così come si moltiplicano le visioni di interviste e documentari, e naturalmente di spicchi di partite e di episodi da gol. In questo modo anche chi non freme di passione calcistica può rendersi conto di cosa sia stato Maradona.

Ho scritto cosa, e non chi: non si tratta di un errore. Ho scritto cosa perché ritengo che Maradona abbia cambiato il gioco del calcio, lo sport più popolare del pianeta. Cambiando il calcio, Maradona ha cambiato la psicologia collettiva, e con essa noi tutti.
Il calcio può offrire modalità di gioco molto diverse, anche in epoche storiche adiacenti: fu così con l'italiano catenaccio - basato su una difesa impenetrabile e su contropiedi improvvisi - e con l'olandese calcio totale - fondato sulla multi-fungibilità dei ruoli -, modelli separati tra loro da poche stagioni.
Il calcio di Maradona potrebbe essere letto proprio come una reazione inaspettata alla regolazione collettivistica della squadra di Johan Crujyff, l'Olanda. Nel calcio maradoniano un solo giocatore accentra su di sé l'attenzione di tutti gli altri.

I compagni di squadra lo vedono come un capo e come un prodigioso profeta del gol, capace di inventare vittorie impossibili; gli avversari come un pericolo terrificante e permanente, al punto da tralasciare la marcatura di altri giocatori per puntare ad annullare lui.
Se il calcio olandese attinge all'immagine archetipa del branco, il calcio latino di Maradona edifica il proprio mito sull'archetipo della preda. Gli olandesi calavano verso la porta avversaria come una muta capace di incutere paura. Maradona attirava invece su di sé ogni attenzione, per poi sfuggirne, sottraendosi alla cattura proprio nella mischia dei nemici. Per ottenere quale effetto? Lo sbandamento caotico della squadra avversaria, con conseguente apertura di combinazioni impreviste da sfruttare immediatamente nelle nuove zone scoperte grazie agli sbilanciamenti ottenuti. Per quanti gol strepitosi Maradona possa aver segnato, la lista degli assist e dei passaggi smarcanti da lui generati è probabilmente ancora più lunga. In questo senso l'esito del calcio collettivista e di quello maradoniano non è così dissimile: la preda funambolica, pur attaccata da un nugolo di nemici, riusciva a mettere la palla a disposizione dei compagni, così da redistribuire i gol e le azioni positive, con un inatteso approdo anti-individualista. Il calcio praticato da Maradona era una forma pura di populismo, non a caso nata in terra peronista: un capo carismatico partorito dal popolo e che si propone come esempio di revanche delle classi popolari rispetto a un ordine sistemico appiattito su visioni egemoniche.
L'immagine simbolica della preda può spiegarci l'eccitazione collettiva che esplode nell'azione strategica maradoniana. La preda magica, ingannando i molti nemici avventatisi su di lei, riesce a fare in modo che i compagni - liberi da marcatura stretta - sottraggano risorse ai nemici stessi. Un'azione di successo costruita sulla destrezza della preda, che domina la situazione con l'astuzia e la velocità, componenti decisive di ogni finta e di ogni dribbling. L'avversario pensa che la preda vada in quell'angolo, e invece la preda stava solo simulando. Rapidissima, ha costretto l'avversario a sbilanciarsi, proprio mentre una nuova sequenza inganna le gambe di un nuovo avversario. A questo punto, fingendo una pausa, la preda si getta istantaneamente in uno stretto corridoio vuoto, creando un imprevisto talmente inverosimile che gli avversari sembrano immobili, scioccati da quella folgore. Ora, e solo ora, la preda può liberarsi della palla, decidendo in poche frazioni di secondo se tirarla in porta o se farla arrivare a un compagno in una zona del campo dove il controllo dei nemici è forzatamente allentato. All'interno della dinamica di inganno fisico messa in scena da Maradona si possono riconoscere anche altri archetipi, come le tauromachie, anche nella versione più recente della corrida ispanica. Il torero inganna il toro. La preda è il torero, non il toro. Attraverso velocità e destrezza, il torero fa in modo che il toro si muova dove egli vuole. La vittoria del torero è quindi figlia di una capacità di creare illusioni attraverso le movenze fisiche, a loro volta intensificate dall'intuizione psicologica.
La quota funambolica dello specifico calcistico maradoniano è costituita da un insieme di condizioni che potremmo definire magiche, se non impossibili: non si possono scartare sei giocatori (e invece sì), non si può scartare anche il portiere (e invece sì), non si può piazzare la palla sul 7 alla sinistra del portiere avversario con un nugolo di difensori si getta su di te mentre stai battendo una punizione da posizione difficilissima (e invece sì), non si può segnare con la mano in una semifinale del mondiale senza che tutti gli altri, non solo arbitro e guardalinee, se ne accorgano (e invece sì).
Questi risultati eclatanti - tali da poter mettere in ombra la pur eccezionale biografia di Maradona fuori dal campo - derivano tutti da un altro archetipo: il bambino e il suo gioco. La velocità fisica e mentale che ha reso possibile il gioco di Maradona si fonda sul rapporto ossessivo tra un bambino e la sua palla. I compagni sono importanti perché rendono possibili le partite, ma la palla è l'eterno desiderio di poter giocare anche da solo, di resistere alla malasorte, di rigenerare il proprio microcosmo. Maradona in campo non guardava gli avversari. Vedeva la palla. Eupalla, diceva quel geniaccio di Brera, divinità capace di smuovere tutte le emozioni del mondo.

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