La lingua e la politica: convergenze sempre molto parallele

Elaborazione fotografica di Max Frigione
Elaborazione fotografica di Max Frigione
di Rosario COLUCCIA
6 Minuti di Lettura
Domenica 27 Maggio 2018, 19:03 - Ultimo aggiornamento: 19:08
Di mestiere faccio il linguista. Questa volta parliamo di politica. Non mi avventurerò in analisi complicate su pesi e contrappesi, veti incrociati, ministri proposti o bocciati, competenze vere o millantate. Parlerò esclusivamente della lingua della politica, quella usata dai protagonisti e dai commentatori, della sua evoluzione nel tempo, delle specificità che la caratterizzano rispetto alla lingua comune. Valutazioni di carattere linguistico, nient’altro. Nessuno mi attribuisca giudizi di merito, positivi o negativi, sulle idee e sulle capacità dei personaggi che mi capiterà di citare, nessuno mi tiri per la giacca (e così uso un’espressione che ricorre spesso nelle cronache politiche). Mi limiterò a fare il mio mestiere. Come hanno fatto colleghi e amici che si sono occupati del tema: Antonelli, Coletti, Cortelazzo, Dell’Anna, Desideri, Gualdo, Lala, Lubello, Paccagnella.

La lingua della politica è un linguaggio settoriale. Con l’etichetta linguaggio settoriale definiamo il modo di esprimersi (parole, espressioni, termini particolari, ecc.) proprio di un ambito specialistico, una maniera di comunicare tecnica, chiara per chi pratica una certa attività e in genere poco comprensibile per il profano. Sono settoriali le lingue della medicina, della fisica, dell’astronomia, dell’aeronautica, ecc. Gli addetti ai lavori, quando discutono tra loro di questioni che attengono alla propria specializzazione, usano tecnicismi e formule particolari diverse da quelle della lingua comune. Tuttavia i politici non si rivolgono solo a coloro che praticano la loro stessa attività, non parlano solo per gli altri politici. Compito della politica è rivolgersi a tutti i cittadini che devono essere informati e coinvolti, per capire esattamente quello di cui si discute e, di conseguenza, fare scelte consapevoli, a partire dalla corretta selezione dei propri rappresentanti. Così funziona la democrazia. Questo risultato può ottenersi solo a condizione che i protagonisti si esprimano in maniera comprensibile a tutti. Quando questo non avviene, quando la comunicazione è fumosa e caratterizzata da oscurità (capita spesso), si parla di politichese, parola certo non positiva per definire una lingua poco trasparente.

Il linguaggio politico si avvale di strategie e di tattiche miranti a convincere razionalmente (nei casi migliori) o a persuadere emotivamente (nei casi peggiori). Le forme cambiano con il mutare delle situazioni storiche e, naturalmente, con le differenti personalità e ideologie dei vari esponenti politici. Pensate alla differenza che caratterizza la lingua di due protagonisti illustri della “prima repubblica”, Aldo Moro e Enrico Berlinguer, entrambi molto amati e ancor oggi additati a modello. Lo stile di Moro è caratterizzato da neologismi e da ossimori ermetici ed evocativi («convergenze parallele», «equilibri bilanciati», «cauta sperimentazione», «pace creativa», «progresso nella continuità», «flessibilità costruttiva», «alleanze organiche», «accordo programmatico», «strategia dell’attenzione»), che esprimono in termini linguistici la volontà politica di mediazione e di negoziazione in grado di fronteggiare le contraddittorie realtà del Paese. Fondamentale la retorica dell’attenuazione, costruita con il ricorso a eufemismi e soprattutto alla litote (non + Nome o non + Aggettivo), volta a mitigare le conflittualità («non opposizione», «non sfiducia», «non preclusione», «non usuale», «non ostile», «non tradizionale», «non banale»). Il linguaggio di Berlinguer, ordinato e disadorno, un po’ didascalico, è dominato dall’uso della forma impersonale, con marcata assenza di toni interattivi ed emozionali. Le tesi risultano simmetricamente disposte in una argomentazione a catena di tipo tecnico-scientifico. Abbondano parole e sintagmi chiave come «analisi», «solidarietà», «rigore morale», «intelligenza delle cose», «senso dello Stato» indirizzate all’osservazione obiettiva dei fatti e dei problemi, la cui soluzione impegna il politico non in vista di obiettivi personali, ma per contribuire alla «costruzione di un nuovo assetto del mondo».

Alla fine degli anni ottanta del Novecento, con Tangentopoli e Mani Pulite, scompare il sistema partitico che ha caratterizzato la vita italiana nei primi tre-quattro decenni del secondo dopoguerra. Escono di scena molti esponenti di spicco dell’antica partitocrazia e quasi tutti i partiti tradizionali modificano la loro identità. La “seconda repubblica” si caratterizza per la presenza di nuovi movimenti e di nuove leadership, nascono linguaggi e stili comunicativi che sottolineano la natura antipolitichese dei nuovi soggetti e utilizzano formule mediatiche simili a quelle pubblicitarie. Progressivamente si afferma una lingua che pretende di essere diretta e inclusiva, accostando il livello stilistico del discorso politico a quello della lingua quotidiana, allo scopo di avvicinare i cittadini comuni alla politica. Così viene dichiarato. Il risultato invece è opposto: si finisce con il trattare in maniera semplicistica e approssimativa i problemi complessi posti dalla società. E i cittadini si allontanano dalla politica.

L’uso ossessivamente celebrativo, sui manifesti e sulle schede elettorali, del nome e del cognome del capo politico, esaspera personalizzazione e leaderismo. Una presunta familiarità tra leader ed elettori suggerisce a questi ultimi di rivolgersi direttamente al capo politico usando il pronome personale “tu” se capita l’occasione, pur fugacissima, di contatto. Il dilagare del tu finge vicinanza e amicizia inesistenti. Ma dare del tu a uno sconosciuto (che vediamo in televisione, sui giornali e nella rete) non è sintomo di egualitarismo o di democrazia. È finzione, dopo ognuno torna a casa sua. Viene in mente una battuta attribuita a Palmiro Togliatti, probabilmente non inventata, rispecchia lo stile dell’uomo: una volta, a un iscritto che dandogli del tu parlava con aria supponente di cose che conosceva poco, il leader del Pci replicò: «Caro compagno, dammi pure del lei». In altre parole: essere compagni di partito non significa essere compagni di osteria.

La ricerca di una lingua semplice, invocata a parole, è contradditoria con il ricorso a molti pseudo-latinismi (Mattarellum, Porcellum, Consultellum, Rosatellum, ecc.) e, ancor più frequentemente, ad anglicismi inutili: «spending rewiew» (revisione della spesa), «jobs act» (legge sul lavoro), «stepchild adoption» (adozione del figlio del partner o adozione del configlio), «voluntary disclosure» (collaborazione volontaria), «quantitative easing» (immissione di liquidità), a volte indicato con la sigla Qe (da pronunziare “chiu i”), ancor meno evidente. La politica maschera dietro difficili anglicismi alcuni contenuti che, con nomi italiani appropriati, sarebbero più facilmente compresi. A questo scopo il gruppo «Incipit», operante all’interno dell’Accademia della Crusca (www.accademiadellacrusca - attività - gruppo Incipit), suggerisce alternative italiane agli operatori della comunicazione e ai politici, con ricadute sulla lingua comune.

Stiamo entrando nella “terza repubblica”, così dicono. Vedremo se ad essa corrisponderà un cambio di linguaggio. Giuseppe Antonelli sul «Corriere della sera» ha analizzato il testo del contratto firmato da Cinque stelle e Lega. C’è un bel po’ di inglesorum: dumping, rating, housing, machines gambling, transshipment. Con tanti saluti alla comprensibilità. C’è un bel po’ di burocratese: per quanto concerne, al fine di, addivenire, decisore, problematica, in tale ottica, a valle di, effettuare una verifica. Con tanti saluti alla opportunità di utilizzare un linguaggio piano, semplice e chiaro a tutti. Ho dato anch’io una scorsa al contratto. Leggo. «Tutte le scelte politiche previste dal contratto sono orientate dalla convinzione verso uno sviluppo economico omogeneo per il Paese, pur tenendo conto delle differenti esigenze territoriali con l’obiettivo di colmare il gap tra Nord e Sud». Qui c’è di tutto. C’è l’anglicismo inutile: si scrive gap, ma in italiano esistono divario, differenza. C’è il tentativo di mettere insieme obiettivi che paiono difficilmente conciliabili (sviluppo economico omogeneo … differenti esigenze territoriali … colmare il gap tra Nord e Sud) con forzature concettuali che fanno rimpiangere le ossimoriche convergenze parallele di Moro e gli ossessivi «questo … ma anche» (moderati ma anche idealisti, riformisti ma anche radicali, ecc.) della campagna elettorale di Veltroni del 2008, che si guadagnarono la beffarda ironia di Crozza. E c’è il costrutto «convinzione verso uno sviluppo» sintatticamente e semanticamente errato. Con tanti saluti alla grammatica.

È questa la lingua della terza repubblica?



 
© RIPRODUZIONE RISERVATA