Le elezioni e l’egoismo di non risarcire le giovani generazioni

Le elezioni e l’egoismo di non risarcire le giovani generazioni
di Claudio SCAMARDELLA
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Domenica 21 Gennaio 2018, 18:21 - Ultimo aggiornamento: 28 Gennaio, 20:31
Questo primo scorcio di campagna elettorale risulta essere uno specchio verosimile delle patologie socio-culturali del nostro tempo e conferma che la contrapposizione tra una “cattiva” società politica e una “buona” società civile è del tutto fuorviante. Non è mai superfluo ricordare che anche nel mercato della politica vige la legge della domanda e dell’offerta. E che, dunque, le proposte e i programmi elettorali tendono a rispondere alle aspettative, ai bisogni, alle richieste e agli umori di chi è chiamato a esprimere il voto. Indipendentemente dalla credibilità, dalla fattibilità e dalle coperture finanziarie delle stesse proposte. Non è perciò casuale che al centro dell’agenda elettorale, in queste settimane, ci siano l’abolizione della legge Fornero, l’abolizione degli scaglioni progressivi di reddito in base ai quali pagare le tasse, l’abolizione delle tasse universitarie, l’abolizione del Jobs Act, l’abolizione del canone Rai, l’abolizione del bollo auto e di tutte le tasse sulle case, l’abolizione dell’obbligo dei vaccini. Una furia abolizionista, insomma. Figlia, appunto, di una delle principali malattie socio-culturali del nostro tempo: quell’indebolimento dei legami sociali e quel virus dell’egoismo narcisistico che ci hanno proiettati direttamente nella cosiddetta “società differenziata”.

Siamo ormai alla definitiva eclissi del “socius”: di fatto l’individuo, pur vivendo in un sistema sociale, non fa più parte della società e persegue esclusivamente l’interesse particolare, opponendosi e ribellandosi a tutto ciò che contrasta quell’interesse.

In questo collasso del “noi”, soprattutto nella variante italiana della “società differenziata”, emerge il più ingiusto e insopportabile dei comportamenti egoistici, quello delle generazioni adulte nei confronti delle giovani generazioni. Che può materializzarsi con lo scambio tra il voto e il risparmio (virtuale) di qualche centinaio di euro. Con la logica dell’avere più che del dare, del prendere più che del risarcire, dell’ottenere più che dell’offrire. Indistintamente tra chi ha già e chi non ha assolutamente nulla, tra chi gode già di garanzie e di privilegi e chi, invece, è condannato a un presente senza futuro.

C’è uno slogan che va molto di moda da molti anni: un Paese che non investe sui giovani non ha futuro. Uno slogan bellissimo e molto vero, ma che da sempre resta tale. Anche in questo primo scorcio di campagna elettorale. Dovremmo ricordarci ogni giorno e in ogni nostra azione quotidiana, anche al momento del voto, che abbiamo scaricato sulle deboli spalle di ogni bambino che nasce in Italia oltre 30mila euro di debito, vivendo per troppi anni largamente al di sopra delle nostre possibilità. Il perverso meccanismo dell’economia statale a debito - consentito fino a qualche decennio grazie a particolari contesti geo-politici e geo-strategici - ha garantito ad almeno tre generazioni di raggiungere traguardi e tenori di vita inimmaginabili per quelle precedenti. I costi, tuttavia, sono stati scaricati per intero sulle nuove generazioni, fino a condizionarne drammaticamente la vita. Abbiamo rubato e continuiamo a rubare, giorno dopo giorno e anno dopo anno, dosi massicce di futuro ai nostri eredi; abbiamo pesantemente ipotecato le loro prospettive e abbassato, fino ad annullare, i loro orizzonti. E stiamo condannando chi verrà dopo di noi, cioè i nostri figli e i nostri nipoti, a un’esistenza di “minorità”, di angosce e precarietà, senza certezze e senza speranze fino agli anni della vecchiaia. Se non vogliamo rubare anche le ultime porzioni di futuro ai nostri figli, ma restituire loro un orizzonte, dovremmo cominciare a risarcirli, dovremmo cominciare a dare ciò che ci siamo presi a loro danno. Abbiamo, qui ed ora, il dovere morale prima ancora che civico di lasciare a chi verrà dopo di noi un mondo dove potersi costruire una vita, come hanno fatto le generazioni precedenti con noi. E dovremmo saldare questo debito con equità e giustizia, non tutti allo stesso modo, perché non tutti si sono arricchiti allo stesso modo e ottenuto gli stessi privilegi con con l’economia statale a debito.

Investire sui giovani e risarcirli, sia chiaro, non significa solo abbattere il mostruoso debito pubblico, ma offrire loro anche gli strumenti per competere nel mondo globale. E qui arriviamo all’altro punto. La scuola, l’Università, la formazione. Che hanno bisogno di risorse pubbliche, di idee, di riforme e, perché no?, di autorevolezza e coerenza per espugnare quei fortini di immobilismo e quei grumi di conservazione che si annidano nel mondo dell’istruzione. Ci ripetiamo spesso che l’unico, vero “petrolio” in Italia è nelle menti degli italiani. Se questo è vero, bisogna ammettere che siamo messi male per il futuro. Si è venuto a creare, e purtroppo tende sempre di più ad allargarsi, un divario profondo nella quantità e nella qualità delle conoscenze tra le nostre giovani generazioni e quelle di altri Paesi, in particolare dell’Estremo oriente, India e Cina primi fra tutti. Non c’è classifica internazionale sulla valutazione della preparazione degli studenti che non veda i giovani italiani in grave ritardo rispetto ai coetanei indiani, cinesi, americani e nordeuropei. E non c’è gara o competizione internazionale sulla matematica o sulla scienza che non trovi largamente perdenti - a parte rarissime eccezioni, dovute più al talento naturale che all’istruzione acquisita - i giovani concorrenti italiani.

Tradotto in parole crude significa che, oltre alla zavorra dell’indebitamento, stiamo condannando i nostri figli e i nostri nipoti, anche a un futuro di “minorità culturale”. Il capitale umano, formato attraverso l’istruzione, è un fattore, se non il fattore determinante lo sviluppo economico di un Paese. E, beninteso, chi si illude - soprattutto dalle nostre parti - di risolvere il problema in modo individuale, inviando magari i figli nelle più titolate Università europee e americane, non ha ancora colto il senso della gravità del problema. Perché all’Università si arriva con un gap così ampio di conoscenze e di preparazione, accumulato anno dopo anno dalle elementari alle superiori, che risulta difficilmente colmabile anche con un eccellente percorso universitario. Se non si interviene sulla quantità e sulla qualità della formazione dagli asili nido all’Università, i meccanismi di valutazione - che pure servono - possono solo certificare ciò che già sappiamo. E cioè che i nostri studenti, anche i più meritevoli, soffrono oggi di un forte handicap di conoscenze. Il risultato è che le nostre nuove generazioni non solo rischiano, per la prima volta nella storia, di essere più ignoranti di quelle precedenti, ma risultano poco competitive (tranne rare eccezioni dei cervelli in fuga) nel sempre più competitivo mondo globale.

Perché di tutto ciò non si parla in campagna elettorale? Semplice. Perché nella “società differenziata”, appiattita tutta sul vorace consumo del presente, questi temi non fanno guadagnare voti. Nella “societas” senza più “socius” la principale richiesta è pagare meno tasse. O andare quanto prima in pensione. O avere servizi pubblici, ma senza canoni. Oppure ottenere redditi di cittadinanza e di dignità. O essere liberati dai lacci e dai lacciuoli dello Stato predatore, vampiro e opprimente. O, anche, rendere inespugnabili quei fortini grazie ai quali si sono consolidate nel tempo garanzie e privilegi (ogni riferimento a scuola e Università non è puramente casuale).

La colpa, dunque, non è solo dei politici che affollano la fiera delle promesse e delle illusioni assicurando meno tasse, più pensioni e redditi per tutti. La colpa è anche nostra, perché la politica alla vigilia delle elezioni ci dice ciò che noi vogliamo sentirci dire. Dovremmo almeno avere la consapevolezza che, come generazioni adulte, stiamo perpetrando il più grande furto ai danni dei nostri eredi. Perché un Paese dove chi nasce ha già più 30mila euro di debito, un Paese che non investe nell’istruzione, nella formazione dei giovani, nella ricerca e nella cultura è un Paese che decide di tagliare le proprie ali per volare nel futuro. E che continua a prosciugare fino a inaridire quell’unica materia prima di cui dispone, sicuramente l’unica opportunità dei nuovi e futuri italiani per non soccombere nel mondo globale.

 
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