Falsa partenza e tempo perso: quante insufficienze sulla scuola tra ritardi e omissioni

Falsa partenza e tempo perso: quante insufficienze sulla scuola tra ritardi e omissioni
di Rosario TORNESELLO
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Venerdì 23 Ottobre 2020, 10:20 - Ultimo aggiornamento: 27 Ottobre, 13:23

Rotti gli indugi, firmato il provvedimento. Le ultime tre classi delle scuole superiori pugliesi da lunedì andranno avanti con la didattica a distanza. Ragazzi a casa (col sacrificio, chissà perché, delle quinte). La Regione prende tempo fino al 13 novembre per rimodulare il servizio trasporto e rimediare al caos sui bus che espone ai contagi. Di fatto, altre tre settimane di purgatorio: aggiungendo le due settimane di ritardo in partenza - con l’avvio delle lezioni spostato dal 14 al 24 settembre, proprio per organizzare meglio il nuovo anno dopo l’inferno del lockdown - cumuliamo un pasticcio di cinque settimane per un’istituzione (l’istruzione) che domani taglia il traguardo del primo mese di attività, trenta giorni appena. Applausi.


Se c’è una cosa che lascia perplessi è come sia stato gestito ancora una volta il facilmente prevedibile, il banalmente ipotizzabile, l’astrattamente logico. In altre parole, come sia stato affrontato tutto quello che, pur solo con un pizzico di buon senso, poteva essere preventivato e per ciò stesso governato, a vari livelli. E questo pur sorvolando sulle superficialità, le inevitabili sottovalutazioni, le generosità ballerine cui ci si è spinti quando la morsa dell’emergenza si è allentata e tutto è sembrato tornare a scorrere con sembianze fintamente normali. Quante premesse e quante attenuanti prima di arrivare al dunque: la scuola, appunto. Asset fondamentale, secondo il premier. Vediamo.


Non si tratta di cercare colpe o attribuire responsabilità, ma se questo è il modo di procedere qualche domanda sarà bene porsela. Abbiamo trascorso la fase del lockdown senza programmare e progettare il futuro ma correndo appresso all’urgente e al contingente. Si capisce: pandemia epocale, sconquasso inimmaginabile, famiglie sottosopra, stravolgimenti dei ritmi di vita e delle abitudini domestiche. Ormai lo sappiamo bene, molto bene purtroppo. Poi in estate il profluvio delle soluzioni immaginifiche per un nuovo anno scolastico in sicurezza: più aule, più sedi, più insegnanti, più personale, doppi turni, ingressi sfalsati (buoni propositi ma nient’altro che questo, soprattutto in una realtà, la nostra, che non riesce neppure a garantire il normale turnover di docenti, uno esce e uno entra, cose del genere, tutte abbastanza banali eppure estremamente complicate all’atto pratico); banchi monoposto e semoventi con rotelle (li avete visti? immaginate cosa voglia dire aprire un quaderno e un dizionario su quel misero ripiano? vi viene in mente un giudizio diverso da quello che ora state pensando?); distanziamento di un metro dalle rime buccali, altre vette liriche e sofismi vari, tutto per non voler cedere all’evidenza e, con essa, alla previdenza: se mille spettatori ritornano soltanto tra infinite cautele e attenzioni a San Siro, alquanto capiente e soprattutto aerato, per quale arcano mistero mille studenti possono entrare con minore apprensione nello stesso istituto e, a blocchi di 50/60, anche nello stesso autobus? Il tifo deve essere disgrazia più letale del Covid, evidentemente; e la didattica a distanza o integrata - per turni, a rotazione, a sorteggio, come vi pare - un’espressione impronunciabile. Impronunciabile prima, sia chiaro, quando può essere misura di prevenzione. Salvo essere imposta dopo, tra capo e collo, come estremo rimedio. L’emergenza è da sempre la nostra dimensione ideale. È più forte di noi.


Quanto tempo perso? Siamo punto e a capo.

Abbiamo trascorso la bella stagione in modo disinvolto, riaprendo tutto quel che si poteva riaprire (e andava riaperto, forse giusto con un tantino di cautela in più, giacché tra i pochi a non aver fatto neppure un giorno di vacanza andava ricompreso l’infingardo, il virus malefico), e questo dimenticando che la differenza tra prima e dopo sarebbe stata una, soprattutto una: la riapertura delle scuole. Circostanza che avrebbe rimesso in moto una quantità impressionante di persone, e principalmente ragazzi, specificatamente quelli delle superiori, con la particolarità di muoversi tutti insieme, simultaneamente, lungo le stesse rotte, negli identici orari. Tradotto in una parola: assembramento (con l’aggravante della scarsa propensione all’utilizzo di mascherine e cautele basilari, in questo la giovane età non esime da responsabilità). Programmare per tempo la didattica - a distanza, a rotazione, per turni, eccetera, comunque nel rispetto dell’esigenza vitale di garantire le lezioni in presenza quanto più a lungo e per il maggior numero di studenti possibile - avrebbe risolto in gran parte il rovello della pressione su aule e autobus, contribuendo al rallentamento della velocità di propagazione del virus, che non nasce a scuola ma quando vi arriva fa danni. Esempi illuminanti, in questo caso, non mancano. Ma non potevano bastare, se isolati. E non sono bastati.


Perché parlarne di nuovo ora, rimarcare le lacune adesso, a emergenza riesplosa? Perché la disattenzione manifestata non induce a ottimismo, semplice. Cosa ci siamo persi da maggio all’altro ieri? Molto. Sul fronte dei trasporti, ad esempio, nessuno studio sui flussi di movimento dei ragazzi in ragione delle iscrizioni agli istituti superiori; nessun censimento sul tipo di mezzo utilizzato; nessuna ricognizione del parco veicoli a disposizione delle imprese private costrette a sosta forzata da affiancare all’offerta pubblica (ma ci si pensa adesso, guarda un po’). Non solo: ci siamo persi anche il potenziamento delle dotazioni informatiche e telematiche, da sfruttare sempre e comunque: per non ammorbare le aule se banalmente influenzati, per non correre rischi se accidentalmente alluvionati, per non saltare le lezioni se in un modo o nell’altro impossibilitati. Il futuro non va solo atteso o subìto. Può anche essere anticipato. Volendo, si capisce.


Tutto questo per dire cosa? La mancanza di visione e previsione, di progettualità, sconforta adesso per il tempo perso e le soluzioni pasticciate approntate. Ne è prova anche lo stesso Dpcm, l’ultimo, atto supremo di questo governo nella stagione sovrana del Covid: spostare di un’ora gli ingressi a scuola - da cui tutto questo grande affannarsi per riorganizzare lezioni e collegamenti - forse decongestionerà il trasporto pubblico nelle grandi città ma non certo in provincia, dove i pullman sono per lo più utilizzati dagli studenti, senza considerare la difficoltà pratica di prevedere un raddoppio di linee, una per i lavoratori pendolari (pochi) e un’altra per i ragazzi (tantissimi). Molto di quello che si poteva fare non è stato fatto. Questo è. E così siamo qui: l’autunno, in prosa o in versi, è stagione precaria da sempre. Quest’anno ancora di più. In attesa di un vaccino, non resta che affidarsi alla buona sorte. Peccato non sia propriamente un programma di governo.
 

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