La politica dei porti chiusi comporta costi maggiori per il Paese

La politica dei porti chiusi comporta costi maggiori per il Paese
di Guglielmo FORGES DAVANZATI
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Domenica 7 Luglio 2019, 17:43 - Ultimo aggiornamento: 17 Luglio, 21:31
La recente vicenda della Sea Watch, nella sua drammaticità, ha acceso nuovamente i riflettori sulla questione migratoria in Italia, riproponendo un dibattito che si trascina da anni fra ‘buonisti’ – favorevoli all’accoglienza – e ‘realisti’ – contrari per (discutibili) ragioni economiche e per la tutela delle ragioni del nativismo. Occorre chiarire che la politica dei respingimenti messa in atto da questo Governo, con maggiore accelerazione e pericolose derive razziste rispetto ai precedenti, è miope e per molti aspetti contraddittoria. 

È miope dal momento che non tiene conto dell’inevitabilità di spostamenti di masse di popolazione dal Sud al Nord del pianeta: inevitabilità che deriva fondamentalmente da processi di crescente impoverimento delle periferie e crescente relativo arricchimento dei Paesi ricchi. Questi processi dipendono fondamentalmente dal modo in cui si sono storicamente determinati e ancora si determinano i rapporti fra centro e periferie e, in particolare, dal fatto che le imprese collocate nelle aree economicamente più forti hanno necessità di individuare mercati di sbocco delle loro merci per mantenere elevati i loro margini di profitto. 

Fenomeni di colonizzazione avvengono anche attraverso l'erogazione di aiuti, che tali non sono, per definizione, in quanto comportano il pagamento di interessi per chi li riceve. E che contribuiscono, contrariamente alle intenzioni (reali o dichiarate) di chi li eroga, a bloccare la crescita dei Paesi poveri: ciò a ragione del fatto che i trasferimenti monetari finiscono alle classi dirigenti di quei Paesi che, nella gran parte dei casi, li usano per consumi opulenti, imitando gli stili di vita delle classi agiate dei Paesi ricchi.

La politica dei respingimenti è anche contraddittoria, dal momento che comporta costi a carico delle finanze pubbliche, che potrebbero essere ridotti nel caso si adottasse una politica di accoglienza. Si calcola, a riguardo, che le spese per il controllo dei flussi di migranti in arrivo sono passate dai 920 milioni del 2012 a oltre 4 miliardi del 2018, pure a fronte di una riduzione degli arrivi: dal gennaio 2019 a oggi sono arrivati in Italia solo 2500 migranti a fronte dei 12.500 arrivi in Spagna. Questi costi gravano, in ultima analisi, sui contribuenti italiani, così che dovrebbe essere chiaro che quanto più lo Stato italiano si impegna per provare ad arrestare i flussi di immigrati in arrivo sulle nostre coste, tanto più i cittadini italiani pagano.

I costi dei respingimenti sono elevati anche in termini di uso alternativo che essi potrebbero avere. Ci si riferisce, in particolare, ai vantaggi dell'accoglienza e, dunque, agli effetti che l'integrazione dei migranti produce sulla crescita economica. Vantaggi riconducibili a:
aggiori contributi alla spesa previdenziale (anche a ragione del fatto che si tratta di individui che beneficiano relativamente meno dei nativi dei servizi di Welfare) e dunque sostenibilità del sistema pensionistico;
attivazione di investimenti, considerando l'elevata e crescente numerosità di imprese gestite da immigrati;
maggiore domanda interna, per effetto della maggiore propensione al consumo degli immigrati, la gran parte dei quali è nella coorte d'età 25-35 anni (ovvero nella coorte d'età che, in media, consuma relativamente più di quanto consumano individui e famiglie più anziane);
maggiore produttività, dal momento che individui giovani, per effetto della loro maggiore forza fisica (fattore che conta per alcune mansioni) e per effetto della minore obsolescenza delle loro competenze (fattore che conta per i segmenti del mercato del lavoro nei quali la domanda di lavoro espressa dalle imprese è rivolta a individui con elevata dotazione di capitale umano). In sostanza, gli immigrati contribuiscono in modo rilevante a frenare l'invecchiamento della popolazione italiana.

Pur a fronte di queste evidenze, la tesi oggi dominante è che gli immigrati fanno concorrenza ai nativi nel mercato del lavoro. Ciò può essere vero per alcuni segmenti del mercato del lavoro, laddove si richiedono basse qualifiche, dal momento che molti immigrati o non hanno titoli di studio elevati o i titoli di studio conseguiti nei Paesi d'origine non vengono riconosciuti in Italia.

C'è poi da considerare che l'Italia è un Paese esportatore netto di manodopera altamente qualificata. E a fronte dei danni per la nostra economia che producono i flussi migratori di giovani con elevato titolo di studio (trasferimento all'estero di potenziale produttivo, trasferimento all'estero di consumi, trasferimento di redditi monetari dalle famiglie d'origine ai giovani emigrati), nessun intervento pubblico ha fin qui bloccato l'emorragia e neppure si è individuata una misura per bloccarla.

In sostanza, la politica migratoria di questo Governo non solo non risolve ma contribuisce a generare due problemi: limita gli ingressi in Italia di individui che potrebbero contribuire alla crescita economica del Paese e non frena l'emorragia di giovani che lasciano il Paese e che contribuisce a ridurre il potenziale di crescita dell'economia italiana.

 
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