La lezione di Cingolani e la neutralità della scienza

Il professor Roberto Cingolani
Il professor Roberto Cingolani
di Stefano CRISTANTE
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Domenica 3 Marzo 2019, 19:51
Sentir parlare in pubblico il fisico Roberto Cingolani comporta una serie di piccole scariche elettriche cerebrali: succede perché lo scienziato parla rapidamente e senza fronzoli, avvalendosi di slide essenziali e semplici da seguire, usando raramente la prima persona singolare e preferendo invece citare il suo istituto, l’Istituto Italiano di Tecnologia. L’inaugurazione dell’anno accademico di Unisalento ha offerto un’occasione eccellente per ascoltarlo.

E alla fine erano tutti in piedi, docenti e ricercatori in toga o senza, studenti dell'ateneo e delle scuole salentine, ad applaudire a lungo uno scienziato senza cravatta che si occupa di futuro. Mi occupo di una nuova specie ha quasi buttato là Cingolani riferendosi ai suoi robot. La descrizione di questi formidabili esseri non viventi ma capaci di fare una quantità di cose simulando il comportamento umano cattura l'attenzione di chiunque. Il nostro immaginario moderno è imbevuto di automi e robot, ma questi finora provenivano da romanzi e film, mentre Cingolani ce li mostra mentre muovono i primi passi in un ambiente reale, o mentre spostano pesi impensabili da un lato all'altro di un laboratorio, o mentre superano terreni sconnessi grazie a sensori e arti artificiali che li rendono simili a creature mitologiche (un robot si chiama infatti Centauro).

Per muovere questo pezzo di futuro che sta crescendo nel presente occorrono mezzi ingenti e ricercatori molto bravi: Cingolani li ha ottenuti. E Cingolani non si è formato su Marte, ma nell'università pubblica italiana. Inevitabile allora approfondire questioni che riguardano la scienza normale, quella che si fa appunto ogni giorno negli atenei, anche nel nostro paese. E qui le questioni si fanno ancora più serie, e riguardano tutti. Perché non siamo in un periodo normale. L'ondata tecnologica riconducibile al digitale ha una caratteristica, ha spiegato Cingolani, che la differenzia da quelle precedenti, che hanno potuto affermarsi in tempi che hanno coinvolto più generazioni, come nel caso delle tecnologie mediatiche come radio e tv, e prima ancora delle macchine industriali: ora la velocità di affermazione dei nuovi paradigmi è tale da richiedere rivoluzioni che attraversano la vita di una sola generazione. Non si può imparare una volta per tutte, e anzi l'arte di apprendere deve accompagnare l'intero ciclo di vita di una persona, e quindi anche di chi fa ricerca.

Si tratta di qualcosa di più di un'innovazione: è in gioco un'emergenza sociale e culturale. Ecco perché le litanie sulla distanza dell'Italia dagli altri paesi occidentali negli investimenti sull'istruzione e sulla ricerca vanno considerate alla stregua di un vero grido di allarme, e non possono più essere considerati le lagnanze di categorie protette. L'Italia sull'istruzione è afasica: da quando è scoppiata la crisi globale è anzi muta e bloccata. Il divario nel numero dei ricercatori rispetto all'Europa è sempre più evidente, e anzi ci si chiede come sia possibile che i risultati della nostra ricerca continuino a essere di rilievo nonostante i bassi numeri di reclutati stabili e l'alluvione del precariato: se gli altri investono il 2 o 3% del Pil, noi sopravviviamo con l'1 o poco più. Non è troppo poco: è una scelta sbagliata e grave. Bisogna valutare e valutare ancora? Certamente, anche se l'agenzia per la valutazione italiana - come ha dato ad intendere lo stesso Cingolani - è perfettibile, per usare un eufemismo, visto che si scambiano quasi sempre i contenuti della ricerca con la loro resa burocratica. Per non parlare poi del ritardo ecologico sull'intreccio tra saperi: viene richiesta ossessivamente la pratica della logica specialistica mentre ovunque ci si è accorti che l'innovazione riesce quando i saperi si confrontano e interagiscono. D'altronde le nicchie specialistiche favoriscono anche l'omologazione della ricerca e tirano dritte su scelte strategiche che possono rivelarsi sbagliate proprio perché privilegiano l'atomizzazione del lavoro di ricerca che non riesce a leggere se non in chiave egoistica i bisogni sociali.

In questo senso va ricollocata anche l'annosa questione della neutralità della scienza, su cui molti scienziati, tra cui lo stesso Cingolani, tendono a ribadire affermazioni di senso comune: la tecnologia dipende da come la usi. Attenzione, perché qui un rapporto proficuo tra chi fa scienza esatta e chi fa scienza sociale potrebbe chiarire che, se i materiali e i circuiti sono oggetti privi di volontà, è invece sempre più evidente che la forma tecnologica che essi assumono è dettata da un condizionamento di prospettiva ben rappresentato, ad esempio, dalla moltiplicazione di segretissimi algoritmi, cioè maniere di organizzare le priorità d'uso nei computer e nei device in cui sono inseriti. La scienza competitiva funziona dentro un mercato che ne pratica la stessa logica, e che ne sposa dunque le istanze di fondo, comprese quelle palesemente rischiose e persino sbagliate. Se la scienza si nutre esclusivamente di competizione e abbandona l'istanza cooperativa si mette al servizio di chi dispone di autorità da indirizzare unicamente verso il profitto (che dà il meglio di sé, come è noto, nel campo militare).

Ecco che si può manifestare un'esigenza globale strabica, dove le urgenze di un singolo settore tendono ad avviluppare il pianeta della ricerca in una rete separata e monocratica, a sua volta rispondente a input politici, spesso acrobaticamente momentanei e dunque instabili, rispetto ai quali la tecnica non potrà che cercare una propria autonomia e un proprio potere (altrettanto rischiosi). Stessa tendenza nel centralissimo rapporto tra scienza e cittadini: in un mondo dove il bisogno di scienza e tecnologia è centrale, senza progetti didattici di ampio respiro per coinvolgere e discutere con le persone (a tutte le età della loro vita) la separazione darà vita a fiammate di diffidenza reciproca tra cittadini e scienziati, anticamera di diseguaglianze culturali fosche e pericolose. Con buona pace del progresso, che - almeno per chi si occupa di società - non può che essere sociale, cioè collettivo.
 
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