La lezione di Cassese da far ascoltare ai politici e agli elettori

La lezione di Cassese da far ascoltare ai politici e agli elettori
di Claudio SCAMARDELLA
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Domenica 18 Febbraio 2018, 17:25 - Ultimo aggiornamento: 21 Febbraio, 19:25
Tra qualche giorno l’Università del Salento aprirà l’anno accademico con una lectio magistralis del giurista Sabino Cassese, una delle menti più attrezzate e una delle intelligenze più lucide rimaste nel nostro Paese. Peccato si tratti di una conferenza con posti limitati. Peccato perché, nell’era della sovrainformazione superficiale della rete e degli urlanti talk show televisivi, nei tempi della semplificazione e dell’esaltazione dell’incompetenza, sempre più rare sono le occasioni per ascoltare chi ne sa di più e per seguire le riflessioni di chi è depositario di saperi e conoscenze. Il tema della conferenza all’Università del Salento verterà sul rapporto tra diritti e doveri dei cittadini. Un tema centrale e decisivo del cortocircuito in cui sono entrate da tempo le società occidentali e le democrazie liberali. Un tema solo apparentemente lontano dalla politica e dalla ravvicinata scadenza elettorale, il cui esito - non a caso - si giocherà su molte questioni dove è esploso lo scontro tra diritti e doveri dei cittadini. Accoglienza, sicurezza, tasse, pensioni, salute e lavoro, ambiente e sviluppo. Per non parlare di sovranismo ed europeismo.

Ci siamo illusi che i diritti siano senza limiti e che la corsa all’esercizio dei diritti sia senza freni. Ma non è così, non si può vivere di soli diritti. Anzi, i diritti hanno bisogno dei doveri per dispiegarsi. Un rapporto non equilibrato tra diritti e doveri finisce per disintegrare la società perché nega il principio di responsabilità e, con esso, fa venir meno i valori di solidarietà politica, economica e sociale sui quali si fonda un Paese civile e una società democratica.

“I diritti sono costruiti in una trama inestricabile di situazioni attive e passive - ha insegnato Cassese - Tutti i diritti, anche quelli che appaiono inestricabilmente legati alla persona, sono vincolati a interessi super-individuali, collettivi, a una funzione sociale. Sono cioè doveri”. Quanto più si eclissano i doveri tanto più prevale l’egoismo degli individui. E ciò ha effetti inevitabili sulla politica, che si disarticola, e sulla democrazia che viene corrosa dalla disgregazione della società e dal conflitto tra gli stessi diritti, il cui effettivo esercizio finisce per dipendere solo dai rapporti di forza. E qui tornano i temi sensibili della campagna elettorale su cui si spostano voti. Una politica che insegue solo freneticamente il consenso, costi quel che costi, non punta mai sul sentimento del dovere, perché i doveri riguardano sempre gli altri. Ma qui siamo anche alla micro-struttura della crisi dei nostri tempi e dell’idea stessa di democrazia: il maligno circolo vizioso tra disordine politico e società decomposta con cui, non solo in Italia, stiamo facendo i conti da diversi decenni, almeno dalla fine dei grandi soggetti collettivi e dal collasso dei corpi intermedi. Un circolo da cui non riusciamo ad uscire perché continuiamo a rovesciare per intero le responsabilità o sulla “società politica”, troppo debole per garantire ordine e solidarietà, o sulla “società civile”, troppo disgregata e liquida per produrre a sua volta una politica forte e ordinata.

Riequilibrare il rapporto diritti-doveri è il primo passo per uscire da questo maligno circolo vizioso. Ma non basta se, come ci ricorda spesso Cassese, non recuperiamo e torniamo a rispettare le competenze, le conoscenze, i professionisti, i depositari di secoli di conoscenza, esperienze e saperi. Nella società, nella scienza, nella cultura. E, non di meno, nella politica. Ecco l’altro corno del problema, la competenza della politica e nella politica. Appare sempre più evidente, anche nella deprimente campagna elettorale in corso, che la madre di tutte le “bufale” in giro da anni nella rete è che la politica non sia una professione, una materia specialistica, con le sue leggi, la sua autonomia, i suoi linguaggi, i suoi saperi, le sue conoscenze, i suoi rituali ed anche i suoi stipendi. C’è chi ha voluto convincerci, e in parte c’è riuscito, che “una politica senza gli esperti della politica” sia più pura, pulita, trasparente ed anche efficace. E che l’unico discrimine tra un buon politico e un cattivo politico sia l’onestà, non la competenza. La giusta e sacrosanta battaglia contro i privilegi della cosiddetta casta si è trasformata in una battaglia senza confini contro gli esperti e i professionisti della politica, in un crescente miscuglio di demagogico moralismo e rozzo giustizialismo, e con una rappresentazione del potere come intrinsecamente corrotto e malvagio. Complice anche una parte dei mezzi di informazione tradizionali, si è venuta così alimentando l’attesa di forze salvifiche e purificatrici, anche al costo di pagare il prezzo dell’incompetenza e della improvvisazione. Un’illusione pericolosissima. Per due ragioni evidenti.

Innanzitutto, l’esasperazione ossessiva del moralismo come categoria interpretativa della realtà e della politica ha mostrato storicamente e continua a mostrare clamorosi buchi e gigantesche delusioni. Senza scomodare la fin troppo abusata citazione di Pietro Nenni (“guardatevi dai puri, perché poi arriva sempre un puro più puro che ti epura”) e per restare alle conferme più recenti della nostra storia politica, basti qui ricordare la parabola della Lega di Bossi, quella del partito di Di Pietro, o le vicende di questi giorni che stanno minando il falso mito dell’onestà, della purezza e della superiorità morale del M5S (a proposito è illuminante la lettera del senatore Maurizio Buccarella pubblicata da Quotidiano venerdì scorso).

In secondo luogo, è del tutto evidente che solo la competenza può evitare una politica ostaggio dei diritti senza confini, può tenere a debita distanza la democrazia del clic e può puntare con coraggio sul sentimento del dovere. Porre in conflitto la competenza con l’onestà è una sciocchezza. Idealizzare “una politica senza esperti della politica” è una altrettanto colossale sciocchezza. “La politica si fa con la testa, non con le altre parti del corpo o dell’anima”, scriveva Weber. Gestire uno Stato non è come gestire un banale condominio o un meet-up, governare un Paese non è un gioco di società da salotto, fare politica non significa soltanto avere padronanza e furbizia con la democrazia del clic. Ce lo ricorda spesso proprio Cassese: “Uno dei più grandi problemi dello Stato moderno è il sovraccarico di decisioni, la complessità della gestione di macchine gigantesche: in tutte le società contemporanee, gli Stati sono di gran lunga i maggiori datori di lavoro”. Non solo. I compiti e le funzioni sono di una delicatezza da mettere spavento a chiunque, proprio sul fronte della garanzia dei diritti e della necessità dei doveri. Come non ricordare che, superata la tradizione platonica come soggetto che assicura giustizia, lo Stato moderno - lungo la linea di Hobbes e di Schmitt - resta la principale fonte di pace e di stabilità sociale, la base fondamentale per un ordine giuridico che garantisce la libertà individuale? E come non ricordare che la politica, nell’accezione più alto e nobile del termine, resta l’unico strumento dell’uomo per mettere ordine in un mondo disordinato, non un’attività da tastiera per ottenere - al di là dei contenuti - condivisioni e like? La competenza è, dunque, fondamentale per una politica che non può limitarsi a gestire l’emotività e l’immediatezza, ma che deve andare in profondità, indicare la marcia, costruire il senso, seguire una traiettoria, anche se è impopolare. La competenza è fondamentale per una politica che deve mediare conflitti e interessi divergenti, checché ne pensino gli ideologi del conflitto permanente; per una politica come arte di trovare sempre un punto di equilibrio tra il reale e l’ideale, per garantire i diritti e per far rispettare (a tutti) i doveri. Altro che incompetenza, improvvisazione e casualità. Altro che (falsa) gratuità per l’impegno politico e di governo.

Ecco perché in tanti dovrebbero ascoltare venerdì, all’Università del Salento, la lezione del professore Cassese sul rapporto tra diritti e doveri. Ascoltare e riflettere. Servirebbe, innanzitutto, agli elettori, a ogni elettore, il cui ruolo risulta sempre più complicato rispetto al passato: nell’era del rabbioso disprezzo verso le competenze e l’intellettualità, difficile si rivela la distinzione tra vero e falso, tra diritti promessi e doveri nascosti, tra il possibile e l’irrealizzabile, tra la realtà e l’illusione. Servirebbe, sicuramente, ai politici, candidati al Parlamento e aspiranti governanti, per ricordare loro di non abdicare mai a una delle funzioni fondamentali della politica, l’etica della responsabilità, che si esalta non solo garantendo diritti ma anche imponendo i doveri, e dunque rifuggendo dalla gestione dell’emotività e delle paure, evitando di promettere falsi obiettivi e di partecipare alla fiera delle illusioni, parlando il linguaggio della verità e mostrando anche un minimo di coerenza rispetto a se stessi. Servirebbe al centrodestra e a Berlusconi, per esempio, che voleva le centrali nucleari e il ponte sullo Stretto, promette condoni edilizi, e che appare, perciò, poco credibile quando si traveste da paladino ambientalista di San Foca. Come lui tanti novelli barricaderi e guevaristi della sinistra, in passato sostenitori espliciti di Tap. Servirebbe, senza alcun dubbio, al presidente della Regione, Michele Emiliano, che ha elevato il “ricorsismo” a metodo di governo, piuttosto che considerarlo un’eccezione per ricomporre i conflitti di competenza territoriali, e che sta trasformando la Puglia in un laboratorio politico dove chi ha responsabilità di governo si limita a fare “surfing” nel regno della comunicazione digitale, cavalcando l’onda dei diritti senza confini e mai dei doveri, e dove i problemi non si affrontano e si risolvono, ma si assecondano, si rinviano, si sterilizzano nel nome di un “movimentismo immobilista” dal facile consenso. Servirebbe al Pd pugliese, che dopo cinque anni di feroci scontri interni su tutto, e una furibonda contrapposizione sul referendum costituzionale, si riunisce unitariamente (con ipocriti abbracci e baci) sui palchi per chiedere voti, senza chiarire però quale linea il consenso rafforzerà su temi sensibili come Ilva, Tap, xylella, trivelle, buona scuola, giudizio sui governi nazionali e giudizio sul governo regionale. Servirebbe ai cinquestelle per capire che la politica è una cosa maledettamente seria. Servirebbe al cosiddetto “ceto medio riflessivo”, quello che invoca il cambiamento, ma è sempre il primo ad opporsi a qualsiasi riforma quando tocca il proprio campo (ogni riferimento a scuola e università è puramente non casuale), in nome dei diritti acquisiti. E servirebbe anche a noi, operatori dell’informazione, servirebbe a editorialisti e commentatori nazionali, oggi indignati per la prospettiva di un dopo-voto senza maggioranza e con il ritorno agli intrighi di palazzo, ma ieri pronti a esultare per il fallimento di qualsiasi ipotesi di legge elettorale in senso maggioritario per il timore di derive autoritarie. Il dovere della coerenza, nel nostro mestiere, dovrebbe essere sacro.

Stiamo messi male, inutile nasconderlo. Stiamo messi male perché, in fondo, le menti attrezzate e le intelligenze lucide, come quella di Cassese, sono sempre più rare. Ne avremmo bisogno di tante, e imparare di nuovo a rispettarle, per disinquinarci dal conformismo digitale e dagli abbagli collettivi. Ne avremmo bisogno di tante per scongiurare l’avventurismo e per non cadere nelle mani di pericolosi arruffapopolo. Perciò, speriamo di ritrovarle presto.

 
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