La giusta riforma dell'abuso d'ufficio

La giusta riforma dell'abuso d'ufficio
di Raffaele CANTONE
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Domenica 26 Maggio 2019, 20:24 - Ultimo aggiornamento: 20:29
Fra i tanti temi oggetto di questa controversa campagna elettorale è entrata a pieno titolo anche la riforma dell’abuso d’ufficio. A ben vedere, però, si tratta di un argomento ricorrente e tutt’altro che recente. Questo reato, infatti, è già stato oggetto di due revisioni rispetto al testo originario del codice: nel 1990 e poi di nuovo nel 1997, con la giustificazione, in quest’ultimo caso, proprio di sostituire una formulazione assai criticata per la sua indeterminatezza.

Una riforma, fra l’altro, che non mancò di creare polemiche poiché finiva per incidere sull’esito di alcuni noti processi in corso. Malgrado il testo adottato abbia provato a circoscrivere con precisione la condotta da punire (la violazione di leggi o regolamenti oppure la mancata astensione in presenza di un conflitto di interessi, assieme all’intenzionalità di recare un vantaggio o un danno), i problemi del passato, soprattutto per alcune interpretazioni giurisprudenziali, sono rapidamente ritornati. Resta, infatti, molto difficile di individuare i presupposti applicativi e, in particolare, distinguere il fatto penalmente rilevante (caratterizzato dalla intenzionalità del vantaggio o del danno) dalle mere irregolarità amministrative.

Anche i numeri confermano che il problema esiste. Le denunce per abuso d'ufficio rappresentano circa un terzo dei reati contro la Pubblica amministrazione ma in maggioranza i fascicoli si chiudono con l'archiviazione. Quelli per i quali viene disposto il rinvio a giudizio si concludono con una condanna in meno del 20% dei casi. Insomma, uno iato enorme rispetto alle indagini avviate.

Nella mia attuale esperienza di presidente dell'Anac ho potuto, da una diversa angolatura, rilevare le conseguenze pratiche di questa situazione; in particolare, la cosiddetta fuga dalla firma, che induce dirigenti e funzionari (ma talvolta anche l'organo politico) a non far uso del proprio spazio decisionale per timore anche solo di un avvio di una indagine penale, che rappresenta per il singolo funzionario un danno per il clamore mediatico che l'accompagna, seppure il processo si concluda poi con un'archiviazione o un'assoluzione. Quel timore finisce per trasformarsi anche in un comodo e spesso ingiustificato alibi per non assumersi le responsabilità cui si è chiamati, generando così quel blocco dell'attività amministrativa tanto deprecato dall'opinione pubblica.

Naturalmente queste criticità non giustificano affatto l'idea che sia possibile eliminare il reato; i favoritismi o i danni arrecati volontariamente da amministratori pubblici non possono non essere puniti, perché sono comportamenti di grave distorsione dell'azione amministrativa che meritano la sanzione penale e anche perché sono sovente spia di fatti più gravi; molte delle ipotesi di corruzione vengono scoperte proprio a seguito di indagini partite per abuso di ufficio ed eliminare questo reato sarebbe quindi un danno enorme nel contrasto al più grave fenomeno corruttivo.

L'obiettivo di un'eventuale riforma dunque deve essere chiaro; nessun colpo di spugna per una fattispecie che resta indispensabile per il controllo di legalità dell'azione amministrativa ma maggiore precisione nell'indicazione dei presupposti, in modo che quei fatti di mera irregolarità non consentano nemmeno l'avvio di un'indagine e vengano trattati attraverso i presidi ed i controlli amministrativi.

In questi anni sono stati avviati molti studi sul tema. Vi hanno lavorato, fra gli altri, la commissione presieduta da Carlo Nordio, il think tank Italia Decide (che ha visto la partecipazione dei maggiori esperti in materia), l'Università di Salerno, che ha istituito una seria e rigorosa commissione di studio. Si può, quindi, partire da quanto c'è già per elaborare, al di fuori di ogni scontro ideologico e ovviamente lontano da campagne elettorali, un testo che possa servire davvero per le indagini penali e al tempo stesso impedire ingiustificati alibi per non agire.
 
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