Fitto, l'ultima metamorfosi è un ritorno. Così vuol prendersi la rivincita. Su tutti

Fitto, l'ultima metamorfosi è un ritorno. Così vuol prendersi la rivincita. Su tutti
di Francesco G. GIOFFREDI
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Mercoledì 24 Giugno 2020, 10:53 - Ultimo aggiornamento: 5 Luglio, 10:54
L'ultima delle metamorfosi è un ritorno al passato e un'ipoteca sul futuro, un crocevia che sa di molte cose e molte parole dell'alfabeto fittiano: rivincita, riscatto, consenso organizzato, potere, i programmi e la "macchina", le truppe, la «bombola d'ossigeno del contatto col territorio» (l'espressione, datata, è sua), e poi soprattutto la Regione, governata già dal 2000 al 2005, luogo della memoria paterna così come della prima e forse più cocente delusione politica. Raffaele Fitto riavvolge il nastro e impugna il pallottoliere, perché dicono che voglia chiudere un po' di conti: innanzitutto con chi un anno e mezzo fa l'aveva dato per finito, tramontato, ridotto a pulviscolo locale dall'uno-virgola-qualcosa; poi con chi, un tempo fedelissimo, gli ha voltato le spalle e s'è accasato altrove, quando Raffaele da Maglie era politicamente vulnerabile, preda dei marosi che sbattevano da una parte all'altra il centrodestra e che a lui avevano fatto sfiorare l'abisso; ma ora Fitto vuol fare conto pari con la storia, anche. E allora, sbucato progressivamente dall'apnea, si candida per vincere e tracciare così una cesura netta in Puglia, scrollandosi di dosso l'etichetta più ingombrante, quella del governatore della "Puglia di centrodestra" che consegnò le chiavi della Regione al vendolismo e al centrosinistra, per 15 anni. Vuol essere colui che rompe l'incantesimo e interrompe l'egemonia, come fosse un movimento circolare.

Lucido e calcolatore, misurato e cocciuto, ambizioso e un po' permaloso, «vendicativo» - dicono i detrattori. Più semplicemente: ha nelle vene il senso della rivincita che scorreva a fiotti nella Prima Repubblica. È lì la sua radice, quella lontana fibra democristiana mai intaccata nemmeno dall'abbraccio col sovranismo di destra di Fratelli d'Italia, qualità e a volte limite, un marchio talmente profondo da fargli guadagnare appellativi crepuscolari, da «Fitto il grigio» a «Raffaele il vecchio». Ma proprio l'impulso a non lasciare aperto nulla, al riscatto, lo riporta oggi qui, dopo Roma, dopo l'incarico da ministro, dopo Bruxelles, dopo qualche esilio, dopo molto distacco dalla Puglia, dai suoi dossier, dalla mistica del consenso coltivato pezzo su pezzo, «Raffaele - dicevano - non segue più come un tempo cosa succede sul territorio, pensa a Roma, ad altro». E spesso era magari vero. Si ricandida e alla fine la somma delle troppe negazioni ha prodotto un'affermazione: «Ogni cosa ha una sua stagione, è sbagliato innamorarsi dei ruoli», ha sempre ripetuto fino alla nausea a chi gli chiedeva se, insomma, ci ripensava alla Regione, al bis. Negava così tanto che alla fine l'ha fatto. Succede spesso, in politica.

Ma un indizio, del resto, l'aveva seminato già un anno fa, quando coronò l'ennesima, lenta, metamorfosi: rieletto eurodeputato con Fratelli d'Italia dopo un triennio di buio e mosse improduttive, all'intervistatore che lo sollecitava sulle regionali rispose - stavolta senza sprangare del tutto la porta - che «certamente in Puglia saremo protagonisti». Ci aveva preso gusto, di nuovo. «Mi avevano dato per finito, ma sono qui», scandì dopo aver raccolto 87.774 voti, di cui 55.528 nella sola Puglia. «È tornato», decretarono un po' tutti. Erano stati anni nefasti: lo strappo rumoroso con Silvio Berlusconi del 2015 l'aveva consegnato a un lungo e imperscrutabile peregrinare, in cui s'era dedicato perlopiù a tirar fuori dal cilindro movimenti, prima i Conservatori e riformisti, poi Direzione Italia, infine Noi con l'Italia sottobraccio all'Udc per le politiche del 2018, e fu una debacle (1,3%, il 3,5% in Puglia). Anni in cui il centrodestra si cominciava a spostare molto a destra, il centro s'accucciava all'ombra del Pd e i moderati vagavano senza meta. Anni in cui, soprattutto, Fitto non era più il punto di saldatura del centrodestra pugliese, ormai sfaldato, litigioso, diviso, al punto da perdere elezioni qui e lì e guarnigioni di dirigenti, consegnati spesso in blocco a Michele Emiliano. L'accordo tra Direzione Italia e Fratelli d'Italia sembrò l'ultimo azzardo prima del tramonto, anche perché in quel momento il partito di Giorgia Meloni annaspava per appigliarsi alla soglia del 3%. Sì, certo, c'è sempre quel problema lì: ma come, un moderato, ex diccì, che ci fa con i custodi della fiamma tricolore e col sovranismo italico? Forse l'aveva calcolato o forse no che FdI si sarebbe impennata così. Ma Raffaele da Maglie, metamorfosi o no, è sempre portatore di una alterità tutta sua, in qualsiasi partito: è quasi un'enclave, un'autonomia, col suo consenso, con la propria alchimia elettorale. Fu così per lungo tempo anche con Berlusconi, che in queste settimane è stato sponsor della candidatura, e chi se l'aspettava dopo le reciproche e velenose scudisciate del passato. Da un po' di tempo, intanto, Fitto è tornato a fare ciò che pare gli riesca meglio: ricostruire, ago e filo con pazienza, le reti di relazioni sui territori. La campagna elettorale riparte da qui, come si faceva un tempo. Cinque liste ben congegnate e la volontà di stare sui temi, senza toni urlati, magari mettendo un po' la sordina alla Lega, perché rischia d'essere un boomerang per un moderato e in fondo perché lì ora ci sono pure i fedelissimi di un tempo a cui far vedere chi detta ancora legge. E si torna sempre alla rivincita, come un circuito che non si esaurisce mai.
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