L'eterna compagnia delle poesie imparate a memoria

L'eterna compagnia delle poesie imparate a memoria
di Antonio ERRICO
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Domenica 16 Giugno 2019, 19:48 - Ultimo aggiornamento: 19:50
Quando venne l’ultimo giorno di scuola, il maestro ci diede come compiti per il tempo dell’estate, qualche esercizio di grammatica, qualche altro di aritmetica, e alcune poesie da imparare a memoria. Passò tutto il mese di giugno, poi passò luglio, agosto, settembre.

Tornammo a scuola il primo di ottobre e il maestro ci chiese di mettere sul banco il quaderno con gli esercizi di grammatica e quello con gli esercizi di aritmetica.

Gli anni Sessanta si avviavano al finire. I tempi erano quelli di tutta un'altra storia. Erano tempi che trovavano il loro specchio in quell'incipit delle Due città di Charles Dickens: era il migliore di tutti i tempi, era il peggiore di tutti i tempi, era il secolo della saggezza, era il secolo della follia, era l'epoca della fede, era l'epoca dell'incredulità, era la stagione della Luce, era la stagione delle Tenebre, era la primavera della speranza, era l'inverno della disperazione, avevamo tutto dinanzi a noi, non avevamo nulla dinanzi a noi, andavamo dritti dritti al Cielo, andavamo dritti dritti dall'altra parte.

Insomma, i tempi erano così: svagati, incerti, ansiosi, travagliati, sereni. Come questi tempi.

In classe eravamo trenta. Forse anche due di più. Nessuno dei trenta e dei forse due di più aveva fatto i compiti per l'estate. Non avevamo portato a scuola neppure i quaderni.

Allora il maestro si mise davanti alla finestra e cominciò a pulire le lenti degli occhiali. Poi a uno chiese di alzarsi in piedi e recitare a memoria qualcuna delle poesie che aveva imparato. Uno se ne stette seduto, immobile, senza fiatare. Poi all'altro chiese la stessa cosa. L'altro fece quello che aveva fatto uno. E poi un altro, un altro, poi un altro ancora. Nessuno aveva imparato neppure una poesia a memoria.

Il maestro continuava a guardare fuori dalla finestra.

Poi disse, continuando a guardare fuori dalla finestra: adesso vi dico una cosa che forse non dovrei dire. Ma la dico perché sono sicuro che un giorno capirete il senso che ha. Adesso dico che poi, in fondo, non tanto mi importa che non abbiate fatto i compiti di grammatica e aritmetica. M'importa che non abbiate imparato le poesie a memoria. Forse quelle vi sarebbero servite più della grammatica e dell'aritmetica. Forse vi sarebbero tornate in testa quando non ve l'aspettavate, attraversando una strada, guardando il mare, qualche volta nelle notti che il sonno non vuole venire, qualche volta invece le avreste cercate per capire qualcosa che porta dolore o piacere, e qualche volta le avreste lasciate dondolare nella memoria, così, semplicemente.

I raggi del sole sui banchi disegnavano figure geometriche. Noi aspettavamo che suonasse la campanella per ritornare ai giochi per la strada. Però qualcuno cominciò ad avere l'impressione che al maestro davvero dispiaceva che non avessimo imparato le poesie a memoria. Il maestro continuava a parlare. Diceva: quando la impari a memoria, una poesia diventa parte di te stesso, diventa come la tua pelle, come i tuoi capelli, come le gambe, le mani, il cuore che ti batte nel petto. Quando la impari a memoria non puoi più farne a meno, anche se a volte neanche te ne accorgi che ce l'hai. A volte, invece, è come il compagno che ti sta vicino, è come una creatura che ti tiene compagnia. Sapete, disse, poi, alla fine dei conti, forse la poesia non è altro che una compagnia, ed è sempre un grande peccato che si perda una compagnia. Una poesia che non impari a memoria, diventa una perduta compagnia.

Dai banchi i raggi si spandevano sulle pareti, sulle carte geografiche della Puglia e dell'Italia appese ad un chiodo con un triangolo di spago. Ciascuno cominciava a sentire dentro il rammarico profondo per quella perduta compagnia. Allora ad un certo punto uno chiese quante poesie dovesse imparare a memoria per farsi fare compagnia. Lo chiese con un po' di curiosità e un po' di timore. Dipende, rispose il maestro. Può accadere che la compagnia di una sola persona ti possa bastare per tutta la vita, perché vuoi solo quella, perché ogni volta che parla ti racconta una storia nuova, oppure perché ti racconta ogni volta la stessa storia, ma a te piace ascoltarla, ti piace ritornare nella stessa storia.

Così ti può bastare anche soltanto una poesia. Perché quella poesia ti racconta la stessa storia che a te piace ascoltare, perché una sua parola ogni volta che la senti ha un suono nuovo, o perché a volte ti lascia una malinconia che ti piace assaporare. Dipende, rispose il maestro. A volte senti il bisogno di stare insieme a molte persone, di avere molta compagnia. A volte senti il bisogno di avere nella memoria molte poesie, di farti coinvolgere da molte storie. Dipende, disse il maestro. Il sole aveva allagato l'aula. Nell'aria galleggiava un pulviscolo dorato, fosforescente. Alle dodici suonò la campanella e uscimmo nel cortile, come sempre. Ma senza sfrenarci correndo come sempre, quella volta. Uscimmo a passo lento, quasi triste. Come se non volessimo andarcene via, come se in quell'aula stessimo lasciando qualcosa di importante che ci apparteneva.

Qualcuno tornò a casa e sul libro di lettura andò a vedere quali erano le poesie che avrebbe dovuto imparare. C'era l'autunno famoso di Vincenzo Cardarelli, che cominciava così: Autunno. Già lo sentimmo venire/ nel mese di agosto.

C'era L'ultima cena di Roberto Pezzani, che cominciava così: Le donne preparano sul desco/un po' di vino e un po' di pane fresco. Poi c'era quella poesia stupenda di Alfonso Gatto dedicata al padre, che cominciava così: Se mi tornassi questa sera accanto/ lungo la via dove scende l'ombra/ azzurra già che sembra primavera. Le imparò a memoria, in un pomeriggio solo.

Negli anni che sono passati, quelle poesie gli sono ritornate di tanto in tanto, ogni volta senza che se l'aspettasse. Gli sono ritornate per un po' di serena compagnia.
 
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