L'11 Settembre: quel maledetto giorno in America 20 anni fa

L'11 Settembre: quel maledetto giorno in America 20 anni fa
di Claudio SCAMARDELLA
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Sabato 11 Settembre 2021, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 12:53

Quella mattina ero in netto ritardo. Scesi dopo le 9 nella sala colazione dell’albergo per consumare in fretta uno spuntino, credo un cornetto e una spremuta d’arancia già pronta per non perdere altro tempo nell’attesa del caffè. Di lì a qualche minuto sarebbero venuti a prendermi per andare nella redazione del più importante giornale cittadino dove avrei dovuto partecipare alla riunione della direzione con i capi dei settori. Ricordo solo l’urlo, a squarciagola, del cameriere: “Oh my God”, ripetuto tre o quattro volte, portandosi una delle due mani sul volto. Poi lo sguardo atterrito di una giovane coppia, forse in viaggio di nozze, seduta di fronte. Alle mie spalle, due monitor fissati al muro. Mi girai e capii. Scorrevano le immagini in diretta sullo schianto del secondo aereo, svanivano le incertezze e i dubbi sulla natura accidentale del primo attacco. Pochi secondi e il sottopancia della Cnn titolò: “America is under attack”. Stava cambiando, in quegli attimi, il corso della storia mondiale e mi ritrovai a essere testimone diretto delle ore più drammatiche vissute dal popolo americano da Pearl Harbor in poi. Con una differenza non di poco conto: stavolta, l’attacco non era a basi militari americane lontane; stavolta nel mirino erano luoghi, simboli, uomini e donne di un Paese convinto fino a quel momento di essere inattaccabile, invulnerabile, inviolabile. 

D’un tratto, quel popolo orgoglioso della propria potenza, in casa e fuori, si guardava allo specchio e scopriva tutte le insicurezze sul proprio territorio. E quando poco dopo arrivò la notizia dell’attacco anche al Pentagono, considerato dagli americani - e non solo da loro - il luogo più blindato del Paese e dell’intero pianeta, sopraggiunse anche l’incubo della fine. 

Gli ascensori dell’albergo, efficienti e velocissimi fino a quel momento, andarono in tilt per le troppe richieste di prenotazioni. Fu una corsa ad abbandonare le proprie stanze per raggiungere la hall, che nel giro di qualche minuto diventò una bolgia. Rabbia, incredulità, lacrime nel vedere le immagini delle torri in fiamme e le persone che si lanciavano nel vuoto. Ma soprattutto paura. Anzi, terrore. E insulti, maledizioni, accuse agli indirizzi dei talebani e di Bin Laden, senza risparmiare i propri governanti giudicati colpevoli per non essere stati capaci di regolare i conti con quei “nemici giurati” che avevano dichiarato guerra all’America. Impossibile in quelle ore e davanti a quelle immagini non sentirsi “americani”, oltre che occidentali; non provare un sentimento di piena condivisione del dolore e dell’ira di un popolo messo a nudo. Pur senza dimenticare gli errori, le colpe e gli effetti collaterali provocati dalla superpotenza statunitense in molte aree del mondo. 

Pensai subito al mio giornale, allora il Mattino, e provai a mettermi in contatto con il direttore, Paolo Gambescia. E poi con i miei genitori per rassicurarli. Inutilmente. Tutti i collegamenti telefonici erano stati interrotti per la “sicurezza nazionale”. Intanto, i miei accompagnatori erano arrivati e mi raccontavano gli aggiornamenti sugli attacchi. Decisi di andare comunque al giornale per partecipare alla riunione della redazione, anche per avere notizie più dettagliate da girare poi al Mattino una volta ripristinati i contatti.

Ma le strade erano già intasate. La gente usciva dalle case e dagli uffici, il traffico era ovunque paralizzato: tutti in auto per raggiungere le famiglie o senza alcuna meta, solo per scappare. Quattro chilometri a passo d’uomo, finalmente arrivai al giornale. La sala riunioni sembrava una “stanza da guerra” con otto monitor, ognuno sintonizzato su un canale diverso, tutti però con lo stesso lead: “America is under attack”.

Cominciò la più lunga, sofferta e complicata giornata di lavoro, in un Paese molto lontano dal mio e per tantissime ore isolato dal resto del mondo. Solo nel primo pomeriggio, già sera in Italia, riuscirono a contattarmi da via Chiatamone. Parlai con il direttore, mi disse di inviare subito un pezzo su ciò che avevo visto e vissuto in quelle drammatiche ore. Aggiunse che non poteva arrivare da Napoli un altro inviato perché tutti i collegamenti internazionali con gli Stati Uniti erano stati bloccati per motivi di sicurezza e che l’interruzione dei voli, secondo le indiscrezioni della Farnesina, sarebbe durata a lungo. Avrei perciò seguito da Washington e da New York per il Mattino gli sviluppi della vicenda fino all’arrivo di un altro inviato. 

Dopo vent’anni memoria e storia si incrociano, ma le emozioni - e anche le paure e le angosce - di quelle settimane restano intatte. Immagini e ricordi indelebili. Il lavoro sovrumano e i volti ingrigiti dei vigili del fuoco tra le macerie, l’arrivo del presidente Bush jr nel cratere aperto dal crollo delle torri, il rincorrersi delle notizie dalla Casa Bianca sull’imminente attacco in Afghanistan con il fuso orario che rendeva difficilissimo l’invio di articoli aggiornati in Italia. E poi l’inno nazionale americano che risuonava di continuo in tutti gli angoli delle vie, nei bar, nei ristoranti e negli alberghi; i sit-in spontanei e le catene umane nelle strade con mani strette e abbracci tra persone che nemmeno si conoscevano; le candele accese lungo i marciapiedi. Un afflato venuto dal basso per ritrovarsi come popolo, per riscoprire l’orgoglio di comunità dopo lo choc. E anche per affrontare insieme i cambiamenti dei modi di vivere e di muoversi imposti, nel vissuto individuale e collettivo, dalla tragedia dell’11 settembre. Ricordo le sei ore di controlli e di attese all’aeroporto “JFK” di New York per riprendere, dopo un mese, l’aereo per Roma. Difficile dimenticare quel decollo, difficile dimenticare l’annuncio del pilota quando raggiungemmo le coste dell’Inghilterra.

Nulla sarà più come prima, si disse allora, come in occasione di ogni evento traumatico. Alla luce delle dure repliche della storia, dopo vent’anni, le recenti vicende dell’Afghanistan sembrano riportare, purtroppo, indietro le lancette. Ma nella vita di ognuno di noi, e anche nella mia, nulla è stato più come prima. E ogni anno, l’11 settembre, come oggi, il pensiero va a quel maledetto giorno, a quelle torri collassate, alle migliaia di donne e uomini perduti in una manciata di minuti. E a un mondo che fatica a essere migliore di prima.
 

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