Ergastolo ostativo: ecco perché la Consulta spalanca le porte all'umanità ma non ai boss

di Rosario TORNESELLO
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Giovedì 24 Ottobre 2019, 16:39 - Ultimo aggiornamento: 30 Gennaio, 18:07
La sentenza arriva nel pomeriggio. Il comunicato che la divulga alle 16,52 ha priorità molto alta, così come notevoli erano l'attesa, le aspettative, le polemiche precedenti e, ora, successive. Sull'ergastolo ostativo - unica condanna da tradurre con fine pena mai, il carcere a vita spesso meno tragico e atroce dei delitti che lo giustificano ma non per questo meno vero - si cambia registro: per i giudici della Corte costituzionale la norma è illegittima perché confligge con la legge suprema dello Stato lì dove preclude l'accesso ai permessi premio per i condannati che non collaborano con la giustizia. Bivio a volte insostenibile: la collaborazione talora è impossibile o inutile; sovente espone al rischio di rappresaglia e quasi sempre incarna una forma neppure tanto subdola di ricatto. Ultimo ma non ultimo, non può essere l'unico parametro di giudizio sui percorsi individuali, personali e intimi di recupero e ravvedimento, che invece andrebbero valutati in concreto, caso per caso. Si parla di reati particolarmente gravi, sia chiaro: mafia, terrorismo, sequestro di persona, traffico di droga. Argomento scottante. Ma una cosa appare subito chiara: non ci sarà la temuta scarcerazione in massa di boss sanguinari. Tuttavia, non è da escludere il diluvio di ricorsi di mille e passa detenuti.

Con ordine. La norma è parzialmente incostituzionale. Da questo non si scappa più. Così ha deciso la Consulta accogliendo due ricorsi, uno della Cassazione e l'altro del Tribunale di sorveglianza di Perugia. Pochi giorni prima anche la Corte europea dei diritti dell'uomo (Cedu) aveva espresso analogo parere su ricorso di un ergastolano di Taurianova, per evidente violazione della dignità del detenuto a causa dei trattamenti inumani o degradanti. Non che lo Stato sia stato fin qui aguzzino per puro sadismo, ovvio: l'articolo 4-bis dell'ordinamento penitenziario che disciplina l'ergastolo ostativo era stato introdotto in tempo di guerra, se così si può dire, come l'altro parimenti famoso, il 41-bis, sul carcere duro: la mafia aveva appena ucciso i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, la risposta non aveva tardato ad arrivare e fu subito muscolare. Con risultati evidenti. La corsa al pentimento (più correttamente: la collaborazione con la giustizia per non morire in carcere) fu uno di questi, forse il principale, probabilmente il più fruttuoso. La Scu, che all'epoca viveva la sua prima stagione di maxiprocessi, fu disarticolata così, giusto per restare a un riferimento territorialmente vicino e storicamente rilevante. Ora però si cambia. Perché il diritto evolve (ma talora involve) anche in base alle mutate sensibilità sociali e alle contingenze.

Qualcuno ai vertici istituzionali già strepita preconizzando chissà quali scenari e chiede interventi immediati alla politica, e già questo lascia presagire soluzioni pasticciate se né Cedu (pochi giorni fa) né Consulta (ora) bastano a porre un argine alla spirale del pensiero unico giustizialista: pene più severe e carcere senza speranza, insomma. Sul lato magistratura, invece, la novità - peraltro attesa - è accolta dai non oltranzisti con sufficiente e adeguato distacco: sarà meno impattante di quanto si temeva. Meno impattante, la chiave di lettura è tutta qui.

E difatti, in attesa delle motivazioni, cosa dispone la sentenza? La Corte costituzionale dichiara l'illegittimità del 4-bis ma aggancia gli eventuali benefici - anche senza collaborazione e comunque dopo un congruo numero di anni in cella - a parametri alquanto stringenti, tanto da risultare quasi insormontabili: nessun coinvolgimento attuale con l'associazione criminale, assenza di pericoli per nuovi collegamenti con la malavita organizzata, piena prova di partecipazione al percorso rieducativo in carcere. Non uno dei tre, ma i tre assieme. La pericolosità del detenuto trasmuta da assoluta (e giudicata in astratto) a relativa (e valutata in concreto) e a fare filtro sarà il Tribunale di Sorveglianza. Tuttavia le decisioni che sarà chiamato a prendere dovranno tenere conto dei pareri in arrivo non solo dalle carceri ma anche dalle Procure antimafia e antiterrorismo e dai Comitati prefettizi per l'ordine e la sicurezza pubblica.

Questo, almeno, sul fronte dell'argine ai timori. Perché poi, di fatto, i problemi non mancano. Come dimostrare l'eventuale contiguità in atto con ambienti mafiosi senza mettere a repentaglio la segretezza delle indagini? Come sostenere possibili collegamenti se il detenuto è gravato da 41-bis, perciò senza apparenti contatti con l'esterno? Come parlare di percorsi di recupero quando su questo fronte il sistema carcerario italiano sconta, al di là di formidabili e splendide eccezioni, ritardi e inefficienze che da sole vanificano il dettato costituzionale di una pena volta alla rieducazione del condannato, chiunque esso sia? Dubbi, incognite, quesiti. Per ora resta il portato di una sentenza che recupera il senso di umanità a scapito dell'istinto di vendetta. Ma il nuovo corso è appena all'inizio.


 
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