Il regime dittatoriale che teme un ricercatore

di Stefano CRISTANTE
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- Ultimo aggiornamento: 20 Febbraio, 10:00
Estate del 2013. Il presidente egiziano Morsi, guida della formazione integralista dei Fratelli Musulmani, eletto capo dello Stato da una maggioranza non oceanica (51% contro 48% del suo avversario Shafiq), vuole una Costituzione modellata sulla Sharia, la legge islamica che applica il Corano alla lettera. Morsi, che si è attribuito poteri straordinari, è sempre più impopolare. La situazione economica, a due anni dalla Primavera araba, è disastrosa, e il governo appare incompetente e arrogante. Il colpo di Stato del generale Al Sissi del 3 luglio 2013 mette fine al governo dei Fratelli musulmani e Morsi è arrestato. L’opposizione popolare al golpe si limita ad alcune frange fondamentaliste spazzate via dai cannoni di Al Sissi. A distanza di due anni e mezzo dal tragico evento, appare chiaro che Al Sissi è un dittatore e l’Egitto un paese militarizzato. Tuttavia il generale ha giocato con abilità e cinismo il ruolo di gendarme anti-Isis: intimoriti dall’espansione africana dei terroristi, gli Stati Occidentali e l’Unione Europea hanno lasciato carta bianca ad Al Sissi, e le loro aziende hanno continuato a vendere all’Egitto tecnologia e servizi a prezzi miliardari. 
L’Egitto è un regime di polizia. Sono inibite le forme democratiche e gli arresti sono sistematici. Finiscono nelle retate ciò che resta dei Fratelli Musulmani, gli esponenti dei movimenti che animarono l’occupazione anti-Mubarak di piazza Taharir, gli attivisti per i diritti civili e i sindacalisti di base, cioè i lavoratori che tentano di lottare contro le politiche governative di abbassamento dei salari condivise dai sindacati ufficiali. Durante gli arresti alcuni dei fermati hanno conosciuto la tortura e la morte.
In questo quadro si inserisce la vicenda della morte di Giulio Regeni, il giovane studioso di Cambridge sequestrato da ignoti il 25 gennaio e fatto ritrovare 9 giorni dopo sotto forma di povero corpo martoriato buttato per strada. Abbiamo imparato a vedere il volto serio di Giulio in tv, i suoi occhi vagamente a mandorla, la barba e i capelli ispidi. Quelli di un giovanotto di 28 anni, sufficientemente sicuro di sé da comunicare decisione, forse perché il suo interesse verso il mondo sociale era stato riconosciuto da accademie importanti e così la sua attività di ricerca, rivolta a indagare i contenuti e le modalità di organizzazione dei lavoratori e i loro conflitti con il capitale nazionale e internazionale. Il caso egiziano si prestava assai bene a un’azione investigativa fuori dalla pratica ordinaria: è grande paese in crisi di identità e di nuovo assoggettato a una dittatura, e tuttavia ancora così vicino nel tempo a un sussulto poderoso di popolo che aveva scosso il suo immenso territorio e consegnato alla storia le immagini di una piazza brulicante di umanità e speranza.
Per questo, fino a che gli è stato consentito, Giulio Regeni ha raccolto al Cairo informazioni sulle aggregazioni dei lavoratori, invise al potere egiziano, e per questo ha chiesto e ottenuto di poter partecipare alle riunioni sindacali di base, toccando con mano il modello dell’ “Autunno arabo”: i bassi salari e la precarizzazione di massa mettono a repentaglio la sopravvivenza di milioni di famiglie, ma la strada per favorire i rapporti con le aziende straniere che vogliono investire in Egitto è la consegna di una classe operaia inginocchiata e impoverita. In sostanza, il modello egiziano rappresenta una delle varianti più violente del neo-liberismo, nel mentre si rappresenta come l’argine contro i tagliagole dell’Isis. Giulio non faceva parte della lotta clandestina al regime di Al Sissi: era un ricercatore. Come tutti i ricercatori, voleva capire il mondo. Lo spicchio di mondo cui aveva scelto di dedicarsi è una terra falciata da tutte le contraddizioni del Sud del mondo, quel Sud però così vicino all’Occidente da rappresentare un vicino di casa. Anche i valori, nella globalizzazione, si mescolano. Tra i contestatori di Mubarak i Fratelli Musulmani non erano la maggioranza, ma lo diventarono nelle urne grazie anche a un preoccupante astensionismo (altro costume occidentale condiviso). Forse l’odierna maggioranza degli egiziani vorrebbe un paese democratico senza fanatismi religiosi e non certo una dittatura feroce comoda all’Occidente, ma una competizione democratica autentica in Egitto è per ora un’utopia.
Nel frattempo governa l’esercito, e il giovane ricercatore italiano è stato con ogni probabilità assassinato da una delle tante variazioni sul tema dei servizi segreti. È piuttosto imbarazzante, a questo riguardo, dover notare che la stampa italiana nel suo complesso sta facendo ben poco lavoro investigativo. È stato piuttosto il  New York Times  a divulgare notizie e informazioni che confermano il coerente profilo di scienziato sociale di Giulio Regeni, spiegando come un ricercatore possa costituire un bersaglio di prim’ordine per le dittature militari. La vicinanza tra “oggetto di ricerca” e “ricercatore” è un aspetto molto studiato dalle metodologie sociologiche e antropologiche: ciò che faceva Giulio era “osservazione partecipante”, costituita dalla presenza del sociologo alle interazioni che lo interessano per costruire una narrazione del mondo sociale e dei suoi processi. La vicinanza non impedisce al ricercatore serio una valutazione approfondita dell’oggetto di ricerca. Evidentemente Giulio Regeni aveva sperato che la pressione repressiva e i controlli sulle organizzazioni sindacali di base fossero meno sistematici di quanto in effetti sono stati e sono. Certo è che lascia di stucco l’atteggiamento di certa stampa italiana – con in testa il Corriere della Sera – che insinua un’eventuale attività spionistica da parte di Giulio Regeni. Cercare in questa direzione significa voler confondere le acque e legittimare in anticipo una soluzione fasulla dell’uccisione del ricercatore. Sporcare un nome, gettando inchiostro come seppie sulle responsabilità del governo egiziano, è un’azione maldestra e certamente non coraggiosa, indice di una mancanza di onestà intellettuale che sta diventando il tratto distintivo di un numero crescente di analisti. Sotto c’è un’ideologia momentanea che rischia di farsi duratura: in epoca di Isis i dittatori sono una garanzia per l’Occidente (e quelli che c’erano prima non andavano bene allora? E perché? Quanto sono realmente diversi Al Sissi e il massacratore siriano Assad?). È meglio non disturbare il manovratore. Alcuni giovani ricercatori coraggiosi – tra cui Giulio – mentre analizzavano il loro oggetto di ricerca ne hanno anche riferito giornalisticamente, su blog e su carta. Dai loro articoli emerge una grande preoccupazione per la partita globale rappresentata dal soffocamento delle libertà e dall’umiliazione dei lavoratori e della classe media, fenomeno che si accompagna inevitabilmente all’esplosione delle disuguaglianze.
Quei luoghi non sono distanti dai nostri. Quello spicchio di mondo per conoscere il quale Giulio è stato torturato per giorni come fosse nel Cile di Pinochet (bruciature di sigaretta, unghie strappate, scosse elettriche ai testicoli, costole fratturate) è vicino a noi, separato solo da un mare che assomiglia sempre più a un cimitero. Giulio è stato torturato e ammazzato perché si è trovato in mezzo ai manganelli che aveva sentito descrivere dai suoi intervistati, e perché è sufficiente fare ricerca sociale sul serio per avere cognizione di causa sulle responsabilità del potere, e per essere da questi considerato “individuo sospetto”. L’impegno sociale del ragazzo è stato precoce, il suo compito accademico svolto con capacità e coraggio, la sua morte terribile, la sua vita brevissima: la sua memoria va onorata e protetta. Non si speculi su di lui, e le università europee, quando si tratterà di inaugurare anni accademici e dottorati di ricerca, ne dicano l’impegno e le capacità di lavoro e chiedano giustizia per la sua fine immeritata e terribile.
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