Grande Salento, il rischio che diventi un alibi

Grande Salento, il rischio che diventi un alibi
di Renato MORO
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Mercoledì 24 Giugno 2020, 11:40 - Ultimo aggiornamento: 30 Gennaio, 21:22

Quando Ennio Bonea scriveva di sub regione Salento, analisi che partiva soprattutto dai suoi studi sulla letteratura locale e nazionale, in Puglia si andava da Lecce a Bari attraversando una miriade di incroci dove spesso gli automobilisti ci lasciavano la pelle. Il turismo era una questione di famiglia, anzi delle famiglie che tornavano al Sud o lasciavano i paesi per vivere alcune settimane al mare. Il negroamaro si imbarcava sulle navi per andare a rinforzare i vini del Nord e la giovane università di Lecce sfornava soprattutto laureate e laureati in lettere pronti per i concorsi statali.
Quelle teorie, rimaste per decenni nel chiuso dei salotti o materia per argomentazioni politiche assai poco fruttuose, tornano periodicamente al centro del dibattito a supporto di un’idea che immagina le tre province salentine riunite in un Grande Salento, realtà mai esistita, per difendere e promuovere l’interesse comune. Di recente - in un'intervista pubblicata da Quotidiano -  ce lo ha ricordato Giacinto Urso, che ha invitato a riproporre con forza lo spirito che animava i ragionamenti di Bonea. Una sorta di (ri)chiamata alle armi che Lino De Matteis - sempre su Quotidiano - ha auspicato possa permeare finanche la mente di chi a Taranto lavora per organizzare i Giochi del Mediterraneo del 2026. Ma i grandi eventi sportivi non hanno mai cambiato la sorte dei territori che li hanno ospitati, in più i tarantini da qualche anno a questa parte sono attratti molto di più dal vento che spira da Bari (vedi l’Università) e c’è addirittura chi raccoglie firme per un referendum che traghetti città e provincia verso la Basilicata. 
Una (ri)chiamata alle armi, quella di Urso, per la quale Sandro Frisullo, ancora su queste pagine, ha proposto un’agenda di cose da fare. Che poi, in sostanza, sembra essere in parte l’agenda delle cose che la Regione (di cui Frisullo è stato anche autorevole esponente) avrebbe dovuto fare ma che non è riuscita a fare. O, in qualche caso a fare solo in parte. Un elenco delle meraviglie incompiute insomma. Che, a ben riflettere, finisce per mettere in evidenza gli errori di strategia del centrodestra e del centrosinistra alternatisi al governo negli ultimi decenni. O, come lo stesso Frisullo scrive, la “lacunosa capacita realizzativa”.
Governo della Puglia. Ecco il concetto chiave sempre più assente nel dibattito. Dei programmi, delle sfide che attendono l’intera Puglia nei prossimi anni, della necessità di far fronte comune per offrire un contraltare a un regionalismo sempre più portatore degli interessi del Nord, si parla ancora poco o per niente. Si parla, invece, di Grande Salento, oppure si torna a invocare - come di recente ha fatto Paolo Pagliaro su Quotidiano - la Regione Salento. Come se potesse bastare un diverso amalgama dei confini territoriali, o addirittura una autonomia amministrativa e legislativa, a guarire un handicap trasformatosi ormai in pesantissima zavorra. 
Il vero problema, da Foggia a Lecce, è invece quello costituito da una classe dirigente regionale che ha esaurito le sue batterie, ormai arroccata su posizioni sempre più distanti dalle vere esigenze del territorio. O dei territori, senza tuttavia intendere il plurale come un invito a dividere. Il Mezzogiorno e la Puglia negli ultimi anni hanno mancato una serie di obiettivi, alcuni di un’importanza strategica internazionale e non più locale e nemmeno italiana. Siamo rimasti fuori dalla Via della seta, abbiamo salutato Evergreen e tenuto fermo il porto di Taranto per anni prima di vedere i turchi della Yilport rivolgere verso di esso le attenzioni. Abbiamo inventato le Zes senza riuscire ad attivarle. Non siamo ancora riusciti a dotare le nostre città dei Piani urbanistici. Abbiamo dolosamente consentito che la xylella distruggesse un’economia e un paesaggio - noi che del paesaggio facciamo ipocritamente l’arma vincente del turismo - consentendo la libera circolazione di castronerie alchemiche, come se avessimo a marzo tentato di affrontare il covid con le tisane di nonna Papera. 
Sì, è vero. Ci sono anche rivendicazioni localistiche che sembrerebbero giustificare l’esistenza di un’entità come il Grande Salento, ma riflettiamo: senza una strategia che metta insieme le forze e le intelligenze di un’intera regione, anche un’opera come la strada Bradanico Salentina, destinata a unire Lecce a Taranto, finirebbe per servire quasi esclusivamente le famigliole in gita la domenica mattina.
È nella dimensione globale che la dotazione infrastrutturale è ancora a livelli bassissimi. Non esiste un trasporto pubblico decente per raggiungere gli aeroporti, ammesso che ci siano voli da prendere. E se dagli aeroporti c’è da raggiungere l’estremo Sud o l’estremo Nord della regione, la situazione è peggiore tanto che c’è da raccomandarsi l’anima a Dio. Per non parlare delle infrastrutture tecnologiche: mentre al Nord i politecnici già studiano il 6G nelle sue applicazioni a supporto dell’industria e della sanità, qui sindaci e sindacati (non tutti, per fortuna) si attardano ancora a boicottare il 5G sfiorando la vocazione terrapiattista.
Come si può pensare, davanti a un simile panorama, di risalire la china restringendo gli orizzonti? Se la politica non riesce a soddisfare le esigenze dei pugliesi, la soluzione non può essere quella di consegnare le chiavi di casa a un territorialismo rivendicativo. Restringere i confini vuol dire escludere parte delle intelligenze che potrebbero aiutarci a ritrovare la strada dello sviluppo, parte di quei giovani che devono (non c’è più tempo e spazio per il condizionale) essere classe dirigente. Una classe dirigente capace di idee, concreta nel progettare e nel realizzare, europeista (perché l’Europa è la nostra casa) e svincolata dal vittimismo nel quale si crogiola tanta politica meridionale. 
Diversamente cosa succederebbe se un giorno dovessimo scoprire che nemmeno un Grande Salento o una Regione Salento sono in grado di risolvere i nostri problemi? Arretreremmo i confini fino alle vecchie Province? E poi ai Comuni e ai quartieri e quindi al condominio? 
La questione è politica, non territoriale.

Né geografica, antropologica o culturale (il Salento è stato sempre aperto alle nuove culture). C’è stata una politica che ha saputo cambiare la Puglia da quella terra arretrata che era ai tempi di Bonea, che ha aperto nuovi orizzonti, che ha anche sbagliato ma ha anche saputo leggere nel futuro. Ora che quella politica si è persa nelle faccende di bottega o ha più semplicemente esaurito la sua potenza innovativa, occorre uno sforzo corale: costruire una nuova classe dirigente che riallacci il filo dei discorsi interrotti. Col coraggio che serve per guardare oltre la staccionata.

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