Tra elezioni comunali e suppletive, i rischi per i cinque leader nazionali

di Massimo ADINOLFI
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Mercoledì 22 Settembre 2021, 05:00

Si vota in cinque grandi città, e in decine di altri centri, e si dice: è un voto locale, un voto amministrativo, la partita non riguarda la politica nazionale. Lo si dice, ma non lo si pensa, e anzi si scrutano i sondaggi e le intenzioni di voto per avere la calibratura del risultato, che inevitabilmente misura i rapporti di forza tra le coalizioni. E all’interno delle coalizioni. Per cui bando alle ciance: i leader dei partiti hanno molto da perdere o da guadagnare dal turno elettorale. 

Enrico Letta

A cominciare da Enrico Letta. Il segretario del Pd gioca anzitutto una partita personale, essendo candidato nelle suppletive del collegio di Siena: dovesse andar male lì, per Letta sarebbero guai seri. Ma per il momento è un’ipotesi lontana. Mentre è un’ipotesi realistica la vittoria del Pd in tutte e cinque le principali città. A Milano Sala potrebbe farcela al primo turno; stessa cosa per Lepore a Bologna. A Roma e a Torino i candidati del centrosinistra sono indietro rispetto alla coalizione di centrodestra, ma sia Gualtieri a Roma che Damilano a Torino sono dati in vantaggio al ballottaggio. Infine, a Napoli, Manfredi è avanti: difficile che ce la faccia al primo turno, ma difficile anche che la vittoria gli sfugga al secondo. Insomma: potrebbe essere un cappotto. Per un partito che non fa molto notizia, il cui segretario non ruba la scena e che negli ultimi anni ha preso non pochi schiaffi nelle urne, sarebbe una grossa boccata di ossigeno. E il primo effetto sarebbe una riacquisita centralità, da spendersi subito in direzione Quirinale. 

Giorgia Meloni 

Senza tentennamenti, rivendicando una indiscutibile coerenza e linearità, Giorgia Meloni è rimasta all’opposizione sin dall’inizio della legislatura, e, nella soluzione della crisi politica seguita alle dimissioni di Conte, non si è lasciata tentare nemmeno dalla carta Draghi. Ora si vedrà quanto paga questa scelta. Il partito di patrioti coraggiosi, liberi e coerenti (così recita la campagna di tesseramento 2021) gode di buona salute, ma si rischia il paradosso: che Fratelli d’Italia risulti il primo partito italiano – e sarebbe un fatto di rilevanza enorme – ma che non possa esultare fino in fondo, nel caso in cui Michetti non ce la faccia a conquistare il Campidoglio. Su Enrico Michetti la Meloni si è spesa molto: fino al comizio di ieri a Piazza del Popolo. Ma Michetti stenta. Più che guidare, l’auriga Michetti lascia che siano i partiti a trainare la sua biga: nei sondaggi finisce sistematicamente sotto le liste che lo sostengono. Un bel problema, che rischia di venire a galla nel turno di ballottaggio, quando il fattore-candidato incide di più. 

Matteo Salvini

Il leader della Lega aspetta il voto per decidere cosa fare da grande: se agitare venti di opposizione, o ridefinirsi come forza di governo. Se la Meloni gli finisce davanti, Salvini proverà a giocare questa seconda carta, ma dovrà comunque guardarsi dagli avversari interni, Giorgetti e Zaia su tutti, che ne potranno giudicare logora la leadership (vedi tutta la partita sul grreen pass, giocata assai male dal segretario); se invece la Lega rimarrà davanti, Salvini tirerà un sospiro di sollievo e potrà tornare a spingere per l’unità del centrodestra.

Al momento, i due leader fanno comizi separati: se uno va a Roma, l’altro va a Milano. Non si pestano i piedi, ma non lanciano certo un messaggio di unità. A questo giro, la Lega non ha front-man su cui investire forte, ma a Napoli ha combinato un bel pasticcio, con la lista a sostegno di Maresca esclusa dalla competizione. L’intero progetto salviniano di una Lega nazionale, che finalmente fa breccia nel Mezzogiorno, è in bilico, e qualcosa dipenderà pure dai risultati di ottobre.

Giuseppe Conte

Da tempo l’ex-premier ha rubricato le elezioni amministrative di ottobre alla voce: gatte da pelare. L’onda grillina si era gonfiata con le vittorie di Chiara Appendino a Torino, cinque anni fa, e di Virginia Raggi a Roma. La prima è andata così bene, che ha rinunciato a ricandidarsi, mentre la Raggi ci prova, ma al momento i sondaggi la mettono dietro a tutti: dietro a Michetti, Gualtieri e Calenda. Conte ha tentato di parare la botta di un risultato che con tutta probabilità consacrerà vistosamente il ridimensionamento dei Cinque Stelle offrendo i voti pentastellati a Beppe Sala, a Milano. Grazie no, gli ha risposto il sindaco uscente, lasciando l’avvocato col cerino in mano. Allora Conte ha cominciato a mettere la massima distanza possibile tra sé e il risultato: per non vederselo attribuire. Il nuovo corso è appena cominciato e Conte certo non vuole che finisca strozzato in culla. Perciò, il Movimento metterà tutta l’enfasi possibile solo sull’eventuale vittoria di Manfredi, specie se dovessere arrivare al primo turno. Sarebbe interpretata come il segnale che l’alleanza col Pd è la strada giusta. 

Silvio Berlusconi

Il leader di Forza Italia non ha molto da chiedere alle cinque città: i suoi finiranno così col parlare della riconferma di Dipiazza a Trieste. In realtà, in gioco è la fisionomia del centrodestra, e il Cavaliere scommette che, pur lontana dagli anni d’oro del berlusconismo, Forza Italia continua a essere indispensabile agli equilibri della coalizione. Se il centrodestra le buscherà dappertutto, nonostante sia, complessivamente, davanti al centrosinistra, sarà la dimostrazione che c’è lavoro da fare, e Berlusconi certo non si tirerà indietro. Con un chiodo fisso: il Quirinale. A cui vorrebbe arrivare con un ragionamento che facesse perno sull’essere il centrodestra maggioranza nel Paese, ma anche sull’essere a corto di classe dirigente. Proprio la situazione che il voto di ottobre potrebbe fotografare. Non basterà, ma Berlusconi ci spera ugualmente. 
 

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