Pablito e il calcio come metafora di istanti e redenzione

Pablito e il calcio come metafora di istanti e redenzione
di Francesco G. GIOFFREDI
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Venerdì 11 Dicembre 2020, 12:16 - Ultimo aggiornamento: 14:01

Paolo Rossi se ne è andato così, in punta di piedi, rubando il tempo, il momento: la vita e l’addio come il perfetto riflesso del campo, dell’area piccola. E s'è portato appresso un pezzo di memoria. Paolo Rossi è iconografia moderna, è identità di un'epoca, è l'anatomia di un istante che dura per sempre, è sentimento popolare, è un'adolescenza collettiva.
Paolorossi - tutto attaccato, come usavano le firme del Mundial 82 - è stato tutti noi, la splendida e imperfetta normalità della porta accanto che sbaraglia il mondo, sostanza umana che trionfa senza preavviso, ed è altra storia rispetto alla matrice divina (anche negli eccessi terreni) di Maradona.
Esile, smunto, pallido, leggero, i menischi martoriati, il volto gentile, timido, educato, l'apparenza dell'uomo senza qualità che racconta molto di tutti, dalla polvere del Totonero al riscatto delle braccia levate al cielo, nelle notti estive più dolci per intere generazioni. Il Mundial spagnolo fu il poster di un'Italia fiaccata dal terrorismo, che scopriva nuove piaghe (la mafia, la P2) e si tuffava però nell'edonismo un po' disorientante degli anni 80. Un Paese che cercava una diversità senza smarrire il proprio palpito antico, e che nella Nazionale di Bearzot, nel suo gioco semplice ma letale, trovò il suo specchio e corollario, prima bersagliata ferocemente e poi custodita in un amore puro, intatto, innocente, eterno. Di quel Mundial, di quella squadra azzurra, Pablito fu l'aculeo più spietato, l'attaccante che scompare dai radar e sguscia a qualsiasi difensore, la sintesi, l'hombre del partido (dicono gli piacesse da matti questo soprannome) dal sorriso assassino.

Paolorossi è una delle metafore più belle del calcio, che di per sé è un riassunto della vita: il calcio è dramma agonistico che raggruma tutto e il suo contrario, gioia e maledizione, sacrificio e caso, forza e fragilità, collettivo e solitudine. E Paolorossi è una storia di calcio e redenzione: nel 1980, all'epoca era al Perugia, rimase invischiato nel Totonero, partite accomodate e l'ombra delle scommesse clandestine, colpevole perlopiù di ingenuità e però squalificato per due anni. Immaginate un po' il marchio d'infamia e l'oblio. Tornò in campo proprio nel maggio 1982, per le ultime tre partite di campionato, intanto la Juventus se l'era ripreso. E Bearzot l'aveva aspettato come si fa con un figlio, il Vecio e quel ragazzo smarrito, diafano, insieme contro tutto e tutti al Mundial spagnolo perché il calcio è palestra di umanità, è cesello da psicologi.

Il cittì lasciò a casa persino Roberto Pruzzo, il capocannoniere del campionato, pur di non intaccare la pericolante serenità di Rossi. Le prime partite furono un disastro: i pareggi striminziti, il gruppo dei ragazzi azzurri sotto assedio e in silenzio stampa, l'attaccante sembrava la metà del fantasma di se stesso.

Poi il miracolo, la scintilla, nella partita contro i mostri sacri del Brasile, una delle nazionali verdeoro più dotate di sempre: tripletta, a modo suo, da razziatore di metri e secondi, facendo ammattire avversari, telecronisti e mondo intero. Da quel momento, non si fermò più: doppietta in semifinale alla Polonia, gol in finale alla Germania, Coppa del mondo e - a fine anno - Pallone d'oro. In Brasile, dove coltivano con innata sacralità il senso della vita e dei suoi opposti applicato al calcio, ricordano ancora oggi come un incubo Pablito: nella memoria collettiva ci sono due drammi, non solo calcistici, che sfregiano l'anima dei brasiliani, uno è il "Maracanazo" (la sconfitta in finale contro l'Uruguay al Mondiale casalingo del 1950) l'altro è la "tragedia del Sarrià" del 1982. Paolorossi - anni dopo, a San Paolo - fu persino scacciato da un tassista brasiliano che lo riconobbe: niente ospitalità in auto al «carrasco do Brasil» («boia del Brasile»), al killer con la faccia d'angelo.

È tutto lì: calcio e redenzione, perché il calcio "è" redenzione. Dopo il Mundial, vennero un paio di buone stagioni alla Juve, poi poca roba tra Milan e Verona, alle soglie dei 30 anni già non più sorretto da ginocchia a pezzi, vennero pure i salotti tv, con quel sorriso placido e un po' malinconico e la sensazione d'essere fuori posto. Ma Pablito non è mai tornato un qualsiasi signor Rossi, e resta imperituro quel romanzo popolare dell'82, anche per quanti (come chi scrive) era troppo piccolo o non c'era nemmeno e ha in un altro trionfo mondiale, quello del 2006, un manuale di formazione su fallibilità, abissi, risalite e riscatto. Sempre allo stesso modo, perché a volte è solo questione di centimetri e istanti, di umanità e redenzione, e Paolorossi questo lo sapeva bene.

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