Nustierzu e oltre. Così il dialetto parla di tutti noi

Nustierzu e oltre. Così il dialetto parla di tutti noi
di Rosario COLUCCIA
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Domenica 2 Aprile 2017, 17:48
Di mestiere faccio il linguista. Nel 1444 il domenicano Nicola de Aymo, cappellano della regina Maria d’Enghien, scrive una grammatica latina con esempi in leccese. Rimasta sepolta per secoli, qualche anno fa l’opera è stata ben pubblicata da una collega a me vicina, Rosa Anna Greco. Il testo della grammatica è in latino, ma per farsi capire dai suoi studenti il frate inserisce molti esempi in lingua materna. Si sforza di essere didatticamente efficace con riferimenti all’esperienza concreta dei suoi alunni, come fanno i bravi insegnanti.

A volte trae spunto da momenti della vita scolastica: «tu sì lo più valente scolaro de la nostra citate», «venuto lu maystro a la scola, li scolari apersero li libri», «in Lecce è una bona scola de gramatica»; altre volte cita possibili episodi di vita quotidiana «Pietro, lo quale deve andare cray ad Taranto, comparao ogi uno cavallo»; o nomina città note ai suoi scolari, anche in latino: «inter Taranto et Brindisi», «da questa parte de Taranto», «Sanctus Petrus (l’antico nome di Galatina) et Casale Novum». Il lessico della grammatica è ricco di forme interessanti, che ritroviamo nei dialetti di oggi: verbi come consare ‘conciare, aggiustare’ (salent. odierno cunzare), groffolare ‘russare’ (oggi anche groffulare, gruffulare), imbriacarese ‘ubriacarsi’ (oggi mbriacare, mbriacarse), insetare ‘innestare’ (oggi anche nsetare, nsitare), pertusare ‘bucare’, scalfare ‘riscaldare’ (oggi anche scarfare, scarfá), scalfarese ‘riscaldarsi’, scardare (pisci) ‘squamare’; e avverbi di tempo come crai ~ cray ‘domani’ (dal lat. CRAS), nusterza ‘l’altro ieri’ (dal lat. NUDIUS TERTIA ‘è ora il terzo giorno’, cioè ‘tre giorni fa’ a partire da oggi contando il punto di partenza e il punto di arrivo, appunto ‘l’altro ieri’).

Maria Teresa Cappello, che ha insegnato lingua francese all’università della Calabria e poi all’università del Salento, «innamorata della lingua italiana» e per questo divenuta assidua «lettrice della domenica» di Quotidiano, ultimamente si è «scoperta una nuova veste: quella di commentatrice dei miei articoli» anche con «persone non necessariamente addette ai lavori» (così mi scrive). Da quando ha spiegato ad una signora «che nustierzu deriva dal latino» (...), questa signora «si sente ‟orgogliosa” di parlare anche il dialetto (...). Perciò penso, e mi permetto di suggerirti» (aggiunge Cappello) «di sottolineare questa discendenza in uno dei tuoi interventi che sicuramente affronteranno di nuovo l’argomento dialetto (...). Sono convinta che se questa provenienza verrà fatta conoscere ai più (...), potrà fare accettare e rivalutare il nostro amato dialetto e farà sì che molti salentini siano più felici di usare il dialetto tel quel anziché tentare di italianizzare la loro parlata credendo di ‟parlar ciovile”». È proprio così, è questo l’obiettivo della nostra rubrica. Sollecitare un uso consapevole e adeguato della nostra lingua, nelle diverse situazioni comunicative; e nello stesso tempo dare giusto spazio al dialetto, che nel mondo moderno può convivere con l’italiano, senza conflitti. Se di questo si convincono i lettori, e si comportano di conseguenza, la rubrica ha raggiunto il suo scopo.

Torniamo all’antico maestro di grammatica latina. Nicola de Aymo è personaggio di un certo interesse: legge e commenta la Bibbia nello studio di S. Domenico a Bologna nel biennio 1426-1427, dopo il rientro in patria (negli anni 1442-1453) è cappellano al servizio della regina Maria d’Enghien e successivamente del figlio di lei, Giovanni Antonio Orsini del Balzo, potentissimo signore di Lecce e di Taranto. Alla morte dell’Orsini, anche il re di Napoli Ferrante I d’Aragona si avvale dell’opera di Nicola per ripetute ambascerie, ne apprezza le qualità, gli assegna un emolumento mensile. L’autore della grammatica è con ogni verosimiglianza quel «frater Nicolaus ordinis predicatorum» (i frati predicatori sono nel Medioevo i domenicani) che a Lecce intorno al 1443 è coinvolto in una piccola guerra di religione con il francescano minorita Antonio da Bitonto (1385 ca. - 1465). Questi, in un ciclo di prediche tenuto nella città salentina, aveva sostenuto la possibilità di osservare il precetto pasquale assumendo la comunione nel corso dell’intera settimana santa e non esclusivamente nel giorno di Pasqua. L’affermazione gli vale un’accusa di eresia intentatagli dal Priore dei domenicani leccesi e dal nostro accanito «frater Nicolaus». L’episodio non deve stupire: in quel periodo, in Terra d’Otranto come in altri luoghi d’Italia, spesso i domenicani esercitano il ruolo di veri e propri «bracchi dell’ortodossia» (è l’immaginifica formula coniata molti decenni anni fa da uno studioso tedesco, Eberhard Gothein), nella serrata contesa tra domenicani e francescani per la supremazia teologica. La disputa tra Nicola e Antonio è più di una baruffa dal sapore locale: vede coinvolte, a vario titolo, le massime autorità politiche e religiose non solo locali (la regina Maria d’Enghien, Guiduccio Guidone vescovo di Lecce, San Giovanni da Capestrano e il papa Eugenio IV) e si conclude senza troppi danni. Le affermazioni di Antonio vengono riconosciute non censurabili.

La scorsa settimana, parlando dei codici bizantini di San Nicola di Càsole e degli altri centri scrittori del Salento, ci siamo chiesti dove oggi si trovano quelle preziose testimonianze del nostro passato. Nulla è rimasto in sede. Quei codici sono conservati con cura nella Biblioteca Apostolica Vaticana, nella Biblioteca Medicea-Laurenziana di Firenze, nella Biblioteca Ambrosiana di Milano, nella Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia e in altre biblioteche sparse ai quattro angoli d’Europa (ne ha scritto in un bel libro Daniele Arnesano; prima di lui hanno studiato la cultura bizantina di Terra d’Otranto eccellenti ricercatori non salentini come Guglielmo Cavallo e André Jacob). La stessa dispersione hanno subito i codici medievali salentini scritti in “italiano”, praticamente nulla è rimasto nella terra d’origine. Il manoscritto che conserva la grammatica di Nicola de Aymo è nella Biblioteca Comunale Augusta di Perugia; lì pure si trova un altro manoscritto salentino, quello che tramanda il «Balzino» di Nicola de Pacienza di Nardò, opera studiata da un maestro scomparso due anni fa, Mario Marti. I libri scritti nelle corti di Giovanni Antonio Orsini del Balzo e di Angilberto del Balzo, conte di Ugento e duca di Nardò, sono in massima parte nella Bibliothèque Nationale de France, a Parigi; e nella Biblioteca Universitaria di Valencia, in Spagna; e altrove. Niente in loco, ripeto. Vedremo altra volta i dettagli di come tutto ciò sia potuto accadere. Ma qualche domanda si impone sin d’ora.

Se questo è il risultato (sconfortante), popolazioni e gruppi dirigenti del Salento si sono dimostrati all’altezza della situazione e del patrimonio ereditato? Hanno saputo custodire e amare le testimonianze della nostra storia? Esistono rischi che gli errori, in forma diversa, si ripetano ai nostri giorni? Le mie riflessioni riportate all’oggi possono infastidire, me ne rendo conto. Ma non sono animato da intenti polemici, mi limito a ragionare. Non si gestisce bene il presente se non si traggono i dovuti insegnamenti dalla lezione del passato. Oggi il Sud è chiamato a una sfida decisiva: progettare il futuro tenendo conto del passato. Senza scorciatoie isolazionistiche come la «regione Salento» (che servirebbe ad aumentare burocrazia e prebende politiche) o fatue nostalgie che esaltano le inesistenti meraviglie del Mezzogiorno borbonico. Lo sviluppo economico di questa terra non può avvenire a scapito della tradizione. A nessuno è consentito di trascurare storia e cultura in nome di una modernità presunta, fatta solo di start-up e di partite IVA (importanti, ma non sufficienti) e magari di industrializzazione inquinante e di turismo cementificante. La classe dirigente, se aspira ad esser tale, deve mostrarsi in grado di armonizzare passato, presente e futuro. È questa la questione meridionale, oggi.
 
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