Le scuse di Di Maio e il populismo giustizialista: la posta in gioco oltre le parole

Le scuse di Di Maio e il populismo giustizialista: la posta in gioco oltre le parole
di Massimo ADINOLFI
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Domenica 30 Maggio 2021, 05:00

Le scuse di Di Maio sulla vicenda del ex sindaco pd di Lodi Uggetti, ieri arrestato e oggi assolto, sono un fatto politico di primo piano. Anche perché non sono affatto cadute nel vuoto. Non mi riferisco, beninteso, alle reazioni degli altri partiti, ma alle dichiarazioni di autorevoli esponenti pentastellati, che hanno appoggiato la svolta garantista di Di Maio: Virginia Raggi, Chiara Appendino, Lucia Azzolina, Stefano Buffagni. Il che non vuol dire che il movimento non sia spaccato: per la verità lo è già, e in termini fisici è difficile dire in quale stato si trovi: solido no, questo è chiaro, ma nemmeno liquido o gassoso, poiché è evidente come stia cercando un nuovo ubi consistam, anche se non si capisce se attorno a Luigi Di Maio o a Giuseppe Conte. Per fortuna gli stati della materia non finiscono con le nostre conoscenze da scuola elementare. La scienza è andata avanti: c’è dunque lo stato supersolido, quello condensato, il plasma e altri ancora. Io però collocherei i Cinque Stelle fra lo stato supercritico, non c’è bisogno che dica perché, e quello colloidale, che secondo Wikipedia sta tra la dispersione e la soluzione.

Di quale soluzione si tratterebbe, allora? In verità, non è la prima volta che Di Maio prova a ridisegnare i lineamenti del Movimento, di fatto accreditandosi come il leader intorno a cui prende figura una formazione politica europeista, liberale e moderata, che dopo aver cambiato idea su molte cose – dall’Unione europea alle grandi opere, passando per i migranti, la politica estera e il reddito di cittadinanza – arriva sino a riconsiderare i temi della giustizia, sui quali, al grido di «Onestà! Onestà! Onestà!», e a colpi di Vaffa Day, i Cinque Stelle erano esplosi. Non è la prima volta, non si sa se sia la volta buona: di sicuro, è quella più clamorosa. Lasciarsi alle spalle il populismo giustizialista delle origini non significa sterzare; significa proprio fare un’altra cosa.

Il boccone amaro

Fra tutte le dichiarazioni che si sono potute leggere in queste 24 ore, la più attesa era dunque quella di chi ha avuto da Grillo in persona il compito di ridefinire l’identità del Movimento: l’ex premier Conte. Il quale ha detto – o ha dovuto dire – che la lettera di Di Maio è in linea «con la Carta dei principi e dei valori del neo-Movimento 5 Stelle, a cui ho lavorato nelle scorse settimane», ma ha anche dovuto masticare amaro perché certo non gli ha potuto far piacere andar dietro alle parole del ministro degli Esteri.

Quelli che non gli van dietro, peraltro, stanno già da un’altra parte: sono l’ex ministro Toninelli, che non vuol mollare l’osso della questione morale come arma politica, o ex esponenti dei Cinque Stelle, come il presidente della Commissione Antimafia, Nicola Morra, e naturalmente Alessandro Di Battista.

E mettiamoci pure quell’area culturale che si riconosce ne Il Fatto quotidiano di Marco Travaglio, giornale faro per una larga fetta dell’elettorato grillino, ormai il più sconcertato dai toni oxfordiani e simil-garantisti che Di Maio prova a indossare.

La partita decisiva

La ricognizione delle reazioni registrate nella galassia pentastellata permette insomma di riconoscere facilmente i motivi politici dietro il gesto di Di Maio (quelli personali, la più o meno sincera contrizione di Di Maio, esulano da questa analisi). C’è anzitutto un calcolo: una forza che ormai definisce la propria natura in funzione dei rapporti di governo, non può avere una natura protestataria. Quella roba lì per una parte se n’è già andata, e per un’altra seguirà qualche nuova formazione che nascerà dalla diaspora grillina. Questa è la dispersione: Di Maio lavora alla soluzione. E qui, in ballo, c’è la leadership. Ogni giorno che passa a Di Maio è meno chiaro perché debba toccare a Giuseppe Conte, e, soprattutto, ogni giorno che passa gli si fa più chiaro che essere il vero punto di riferimento dei gruppi parlamentari – dove il nome di Conte non raccoglie entusiasmi univoci – significa essere il reale interlocutore delle altre forze politiche nella partita decisiva dei prossimi mesi: quella per il Quirinale. Conte non è più al governo e non è in Parlamento; Di Maio è al governo ed è in Parlamento: se anche il profilo politico e ideologico dei Cinque Stelle passa per le sue prese di posizione, a Conte cosa resta?

Infine c’è, o ci sarebbe, il merito. Chi se la sente di scommettere sulla condotta del Movimento Cinque Stelle in materia di giustizia, non dico nei prossimi anni ma nei prossimi mesi? In soldoni: chi è in grado di dire cosa pensa il Movimento della riforma Cartabia del processo penale? Che fine ha fatto l’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede, quello della Spazzacorrotti? Se la mossa di Di Maio è solo tatticismo opportunista, o un ripensamento avviato e da approfondire si vedrà presto. Probabilmente, è figlia di entrambe le cose. Ma intanto il fatto politico c’è, e Di Maio ha segnato il punto.
 

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