Dem, cambiare per una svolta: la ripartenza dai territori

Dem, cambiare per una svolta: la ripartenza dai territori
di Vincenzo MARUCCIO
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Mercoledì 28 Settembre 2022, 14:53

"Sinistrati” e non è la prima volta: il Pd colpito e affondato, ma ben oltre le più fosche aspettative. In rivolta contro i vertici per le scelte compiute, ma non era mai accaduto che i toni fossero così duri già all’indomani della sconfitta dentro una coalizione incapace perfino di difendere le sue roccaforti. O si cambia o, lentamente, si muore. Con la Puglia in prima fila a chiedere una drastica inversione di rotta. Illustri le firme: sindaci da ribalta nazionale, amministratori di prima fascia, campioni di preferenze sul territorio.


Non è la solita resa dei conti sottotraccia di un partito capace di cambiare fino a 10 segretari in 15 anni. Un record difficile da battere e il segnale di un’eterna crisi di leadership accompagnata da divisioni fratricide fintamente sopite. Questa volta è diverso perché il tiro al bersaglio - Enrico Letta nel mirino - arriva come un fiume in piena dalle stanze di chi, il Pd, lo rappresenta negli enti locali. Nei Comuni, nelle Province e nelle Regioni dove si gestisce in trincea la cosa pubblica anziché lambiccarsi in giochi di corrente o riposizionamenti tattici in vista di questo o quel riassetto interno: è lì che nel 70% dei casi (dati italiani, ma non lontani da quelli pugliesi) il centrosinistra è maggioranza, salvo poi ritrovarsi perdente quando c’è da eleggere il Parlamento. Salgono i toni e cresce la rabbia, stavolta senza andarci troppo per il sottile. 
Antonio Decaro, sindaco più amato dagli italiani e alla guida del Comune di Bari da quasi due lustri, è stato il primo a dirlo senza troppe diplomazie: «Ci ritroviamo deputati e senatori che non sanno nemmeno trovare sulla carta geografica i paesi nei quali vengono eletti. Solo perché fedelissimi ai leader di partito o a qualche capo-corrente. È l’intero modello su cui il Pd si fonda che va smantellato. O saremo capaci di azzerare questi meccanismi perversi o la sconfitta perpetua alle elezioni politiche sarà il nostro ineluttabile destino». Un proto-manifesto prima di lanciare la candidatura al congresso Pd? Si vedrà, ma qui è un altro l’aspetto che balza agli occhi. L’elenco di accuse coincide con lamentele e malesseri così diffusi - da Nord a Sud, dal Gargano a Leuca - che è come aver tolto il coperchio ad una pentola in ebollizione. A latitudini diverse, come nel caso di un altro sindaco ad alto potenziale di candidatura come Matteo Ricci da Pesaro pronto a lanciarsi nella corsa alla segreteria. Con accenti forse meno marcati come per Dario Nardella da Firenze per il quale «il Pd va ricostruito da zero».


Certo, bisogna dirla tutta: ci sono anche lacrime da coccodrillo. C’è chi poteva dirlo prima ed è rimasto silente. C’è chi poteva obiettare sulle scelte del segretario Letta ma, per convenienza e rendite di posizione, se n’è ben guardato dal farlo. Meglio “sinistrati” che invisi a chi sta al timone: solo in pochi quelli pronti a rischiare l’osso nel collo nelle riunioni di partito. Ma, si sa, che oggi salire sul carro del vincitore è facile quanto scendere, in tutta fretta, da quello del perdente.
Colpisce ben altro: una reazione a catena che travalica i confini di partito e, da queste parti, spinga perfino un politico prudente e poco avvezzo ai commenti “a caldo” come il sindaco di Lecce, Carlo Salvemini, a bacchettare Letta per aver definito la sconfitta «una giornata triste per l’Italia e per l’Europa» indicando la necessità di «una ricostruzione» alla luce del «peggior risultato parlamentare» della storia del centrosinistra. Colpiscono le parole durissime di un Pd doc come Stefano Minerva nel triplice ruolo di sindaco di Gallipoli, presidente della Provincia di Lecce e di Upi Puglia: «Quando ci si presenta agli elettori senza offrire prospettive e sogni e con il fine ultimo dell’autoconservazione, dei dirigenti e dei capicorrente, ecco che la disillusione ha il sopravvento. È improrogabile una rinnovamento della classe dirigente e lasciare spazio ad una nuova generazione legata al territorio». Considerazioni rilanciate da un altro dem come Donato Metallo, per due volte sindaco a Racale prima di approdare in Consiglio regionale: «C’è il dramma enorme delle persone che non vanno a votare, le periferie che non ci “vedono” più e non ci credono più». 
L’elenco potrebbe continuare. Quasi un coro che si leva, il Pd delle città e dei paese sintonizzato sulla stessa lunghezza d’onda. In queste settimane spesso costretto a inseguire il Movimento 5 Stelle che qualcuno già definisce la “nuova sinistra del Sud”. E ora costretto a farsi le prime domande: da dove ripartire? Con chi ripartire? Stefano Bonaccini, governatore dell’Emilia Romagna e in corsa per la segreteria (anche se ancora non lo dichiara), ha posto il problema dei problemi: «Prima di decidere con chi fare le alleanze dobbiamo decidere chi siamo e cosa vogliamo fare definendo la nostra identità. Di sicuro, serve un partito più grande di quello attuale». Prima ancora di capire se Ely Schlein, finora sua vice a Bologna e indipendente Pd appena eletta a Roma, possa essere la sorpresa dei prossimi mesi nella scalata al partito.
La “linea” pugliese, tranne sorprese, è chiara: verificare le condizioni per ricucire con i Cinque Stelle alla luce dell’alleanza in Regione. Ma è un altro il bivio: a chi tocca definire il profilo del nuovo Pd, rimettere i cocci insieme e ricostruire un’offerta con tre, quattro idee-forti immediatamente comprensibili? Sindaci e amministratori hanno da giocarsi carte non da poco: il rapporto diretto con l’elettorato, la competenza necessaria che si chiede a chi guida una grande città o una regione, la consuetudine a trovare soluzioni concrete su sanità, trasporti e occupazione quando un cittadino bussa alla porta e non c’è auto blu che tenga per darsi alla “fuga”, l’appeal che si conquista in trincea e diventa autorevolezza in naturale, la leva dell’empatia che oggigiorno certo non guasta.
«Veniamo dal territorio e lo conosciamo, lasciateci spazio» è la frase ricorrente in questi giorni. La sfida mediatica è appena lanciata, ma non è detto che diventi prassi nell’iter congressuale: ci saranno resistenze all’interno (legittime anch’esse, ovviamente) e le componenti del partito potrebbero optare per un metodo più classico per scegliere il dopo-Letta. Gli analisti sostengono che in questa fase l’unica alternativa possibile alla personalizzazione politica è ripartire dal territorio: a Giorgia Meloni e a Giuseppe Conte - massima espressione del partito-persona, a giudicare dall’esito elettorale - non può che essere contrapposta una leadership proveniente dai Comuni o dalle Regioni. 
Decaro e gli altri - in Puglia ancor più che altrove - lo ribadiscono: se i partiti hanno perso la loro forza propulsiva o se ciò che ne resta sono soprattutto comitati elettorali destinati a spartirsi seggi e postazioni di governo, è nelle stanze del buon governo che si forma e si seleziona la classe dirigente destinata a candidarsi alla guida di un Paese. Il luogo dove ideali (quei pochi rimasti) e pragmatismo incontrano ancora i bisogni concreti dei cittadini. La strada maestra per ridisegnare l’identità Pd e delineare un orizzonte senza affidarsi solo a una campagna-spot o a un selfie. Per non ritrovarsi, fra qualche anno appena, con l’ennesimo segretario. E di nuovo “sinistrati”.
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