Una nuova ecologia oltre il virus

Una nuova ecologia oltre il virus
di Stefano CRISTANTE
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Martedì 21 Aprile 2020, 19:50 - Ultimo aggiornamento: 20:01
Esiste un modo tante volte sperimentato di far fronte alle catastrofi e alle calamità riuscendo anche a elaborare una prima forma di lutto: promuovere uno slancio collettivo di aiuto immediato a chi è stato più colpito. È stato così fin dal terremoto del Friuli (1976) e dell’Irpinia (1980), e prima ancora era accaduto durante la grande alluvione del 1966 a Firenze.Si è attivato in quei casi un segnale, specie tra i più giovani, che ha spinto all'azione, a scavare per giorni sperando di ritrovare persone ancora vive sotto le macerie, a strappare cose preziose dal fango, a preparare pasti caldi per i colpiti, insomma: a dare tutta la propria solidarietà agli altri.
La nostra situazione è drammaticamente rovesciata: ci sono cittadini che hanno scelto il volontariato durante questa epidemia di Covid-19, ma il comando sociale è stato un altro. Per impedire l'estendersi del contagio e il collasso del sistema ospedaliero tutti gli italiani non obbligati a recarsi al lavoro si sono blindati in casa. La modalità è antica ed è stata utilizzata in più momenti dell'intreccio tra Sapiens ed epidemie: isolarsi, cercando di mantenere il più possibile lontana la fonte del contagio, cioè gli altri esseri umani. Gettandosi accanto agli altri, nei terremoti e nelle alluvioni si è potuto superare il dolore per la morte di tante persone, e condividere quello dei superstiti. Oggi non possiamo, o possiamo molto limitatamente. Non ci sono stati funerali per migliaia di morti, e molti di loro se ne sono andati senza alcun accompagnamento: non sorpresi repentinamente dalla frana della casa o da un mare di fango, ma soli, sigillati dal resto del mondo, senza sguardi d'affetto, senza legami sociali. Ci vorrà tempo per uscire dall'incredulità e dallo stupore, e anche per trasformare l'evidenza di errori di condotta sanitaria in indagini accurate, capaci di restituirci percorsi sbagliati e interessi devianti sui percorsi organizzativi dispiegati nel lockdown, soprattutto in Lombardia, dove le vittime del Covid-19 sono ancora troppe.
Molti riflettono però anche su quante vittime si sono evitate grazie al lockdown, e non ci sono voci autorevoli che neghino la sua efficacia. Senza la clausura nelle case, il numero dei contagi e dei morti sarebbe aumentato disastrosamente. Ora, dopo tanti giorni e settimane in questo nuovo regime esistenziale, ne sentiamo tutti il peso. Il lockdown non può essere una strategia valida all'infinito, fino a che un'epidemia non passa da sé o non si trova un vaccino.
Le cifre di coloro che hanno continuato a lavorare fuori casa da inizio marzo a oggi non sono basse (1 su 3 circa), ma resta il fatto che circa 40 milioni di italiani stanno vivendo un'esistenza ridotta alla metratura della propria casa da una quarantina di giorni. Le sensazioni di panico ora si dirigono verso la sfera economica, e, istintivamente, ciascuno avverte l'urgenza di fare, di rimboccarsi le maniche, di agire per un rientro sociale. Ma finora ha funzionato il contrario, cioè la distanza sociale. Alcuni hanno obiettato che si tratta di una definizione sbagliata, perché abbiamo sì distanza fisica, ma non sociale, perché il digitale connesso ci consente di interagire. Credo sia una percezione sbagliata: nonostante i media digitali (tv compresa), la distanza che sentiamo coinvolge tutti, e anche i più privilegiati tra noi  quelli che hanno un ambiente proprio per studiare e lavorare  vivono come in una cella, immaginando gli altri in una stessa situazione. Che si possano vedere volti e udire voci attraverso le piattaforme è fondamentale, ma ciò non scalfisce in profondità la persistente emozione di essere soli, circondati da altre solitudini. Perciò la distanza è sociale, e non solo fisica. Ed è naturale che, con l'andare dei giorni, anche i più entusiasti del tele-lavoro e della tele-didattica siano portati a vederne i limiti oltre che i vantaggi. Ci manca la tridimensionalità delle relazioni umane, ciò che rende una pausa in una conversazione un momento di serenità e non di ansia come quando si è on line, in cui lo spazio-tempo appare come una situazione da saturare sempre, pena la sua inutilità.
Tante cose stanno cambiando, ogni giorno. Ora la mente collettiva cerca di declinare l'espressione Fase 2 in modo da rendersi più vicina psicologicamente all'idea di una fine del lockdown, eppure sappiamo che le fasi sono procedimenti simbolici, che tentano di trasformare in azioni i risultati di un percorso teorico soddisfacente. Dire Fase 2 è accendere nel cervello di milioni di persone un segnale di speranza. Nello stesso tempo, bisogna fare i conti con ciò che appare ai cittadini, che in questi giorni sono soprattutto telespettatori e utenti di social network. E ciò che appare è un pericolo straziante di riprecipitare in una quotidianità politica pasticciona e aggressiva, fatta di personaggi che stanno cercando una nuova centralità post-pandemica e di una mancanza di chiarezza sulle procedure proposte e su ciò per cui intendiamo lottare ai tavoli europei.
Se ha retto il lockdown non è per via dell'apparato di sicurezza e di repressione dello Stato: è stato per la convinzione collettiva che la scelta fosse coerente con il pericolo in atto. Nell'ultimo secolo si era visto di tutto, ma non il Covid-19, non un virus che devasta gli organismi indeboliti e che può ammazzare in pochi giorni anche persone perfettamente sane. Ciò produce un'emergenza che modifica lo stile di vita a livello di massa. Ma dietro alle masse, che alcuni vorrebbero obbedienti e cieche come greggi, ci sono le persone, cioè esseri umani vigili. Non si può ignorare che la virulenza di questa epidemia sia dovuta in gran parte alle pratiche anacronistiche degli individui dell'era industriale. Perciò, se vogliamo uscire dalla pandemia in modo da lasciare un segno costruttivo ai Sapiens che verranno, vale la pena di lavorare su un cambio ecologico sostanziale, la cui base non sia solo il timore di un peggioramento sensibile della qualità della vita, ma anche la responsabilizzazione personale, perché il Covid-19 rischia di inasprire le già spaventose disuguaglianze degli ultimi anni e di eccitare gli spiriti animali di un sistema sociale che ha invece rivelato tutte le proprie fragilità.
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