Coronavirus: il bisogno di un antidoto sociale alla paura

di Stefano CRISTANTE
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Domenica 23 Febbraio 2020, 17:44 - Ultimo aggiornamento: 26 Febbraio, 18:11
Era tra le ipotesi molto probabili che il contagio del coronavirus arrivasse anche nel nostro paese e si diffondesse tra i nostri connazionali. Ora che i primi comuni italiani sono coinvolti in aspri contenimenti delle possibilità di contagio facciamo i conti con preoccupazioni e timori crescenti. Questi stati d’animo vengono da lontano, persino da Hiroshima e Nagasaki, passando per Chernobyl e Fukushima, per la Sars, per Ebola e per tanti altri disastri di dimensioni inferiori ma non per questo meno sedimentatisi nell’immaginario collettivo. La contaminazione e il contagio si saldano in un unico ente trans-storico: la peste.

Nella mente culturale dell’umanità la pestilenza è ben presente: il morbo ha uno spazio tutto proprio, solo in parte ridimensionato dai poderosi passi in avanti compiuti dalla scienza medica assistita da tecnologie sempre più efficaci. L’idea della malattia che si trasmette per contatto ha sempre terrorizzato l’umanità. Perché in essa vi è una possibilità di annientamento che, in questa fase, si aggiunge ad altre possibilità negative dello stesso tenore, in particolare dal campo ecosistemico, ormai attraversato da devastanti cambiamenti climatici.

Vi è una globalizzazione sanitaria insieme a quella economica e finanziaria: le epidemie possono attecchire ovunque perché molti entrano in contatto con molti spostandosi nello spazio come mai prima nella storia era accaduto. Isolare un luogo una città, una regione, uno stato diventa sempre più difficile perché chiunque può aver avuto contatti con la zona contaminata nel periodo della trasmissione e dell'incubazione del morbo. D'altronde l'imporsi di enormi quantità di traffici commerciali nella logica globale impone di non mettere in discussione la libertà di movimento di uomini e mezzi a meno di provocare una paralisi economica senza precedenti.

Siamo in ogni caso noi umani a intervenire a monte delle pandemie, come il caso coronavirus dimostra. In Cina la malattia è frutto della trasmigrazione del virus da animali selvatici che arrivano all'uomo senza adeguati controlli sanitari: una pratica sbagliata e stigmatizzata dalle organizzazioni internazionali. Questa è forse la prima lezione da apprendere: sempre più i nostri comportamenti attirano le risposte violente della natura, e quindi dobbiamo dedicare un'attenzione crescente a quanto mettiamo in moto con le nostre azioni collettive.

Finora, l'isolamento delle persone contagiate e delle zone dove si verifica il contagio sembra essere la principale misura preventiva. Quali possono essere le conseguenze di queste misure? Se la gran parte della popolazione di una città dovrà isolarsi in casa, cosa accadrà alla città stessa? Per mantenere funzionante il nostro sistema un'altra parte della popolazione dovrà proseguire la propria consueta attività, e qualcuno anzi intensificarla, a cominciare dai medici e dal personale sanitario. Se in una città il lavoro delle maggioranze sarà sospeso e quasi tutta la popolazione sarà obbligata a rimanere a casa, si spalancherà una visione fantascientifica molto presente in letteratura: quella della realtà atomizzata dove gli individui sperimentano l'esperienza del vuoto e dell'assenza del mondo. Resteremo collegati, questo sì, anzi i social e i media in genere ci saranno indispensabili, ma i modi di convivere cambieranno e i luoghi sociali dove incontrare fisicamente gli altri diverranno luoghi di potenziale pericolo.

Una socialità inesistente o alterata da migliaia di solitudini interconnesse non è una condizione cui possiamo né dobbiamo abituarci facilmente. Forse le condizioni indotte dalla diffusione del virus potranno intensificare le esperienze di tele-lavoro e di tele-educazione. Leggo che in Cina canali televisivi e siti web sono dedicati alle lezioni per gli studenti, e immagino che anche altrove potrebbero essere intraprese azioni simili. È un salto d'altronde non voluto, in una direzione imprevista anche se forse sanitariamente inevitabile: la nostra società non ha davvero bisogno di ulteriori allontanamenti dall'idea di condivisione collettiva. Un isolamento radicale degli esseri umani non è praticabile, e serve un antidoto sociale alla esagerata ma possibile paura fobica degli altri, cioè l'impegno a pensarci e a comportarci come un essere insieme individuale e collettivo, come esseri umani intelligenti anche nell'impresa di affrontare un nemico invisibile.
 
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