Decide la Corte, ma tutte le strade portano al proporzionale

di Massimo ADINOLFI
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Martedì 24 Gennaio 2017, 13:24
Il passo successivo alla vittoria del No al referendum del 4 dicembre scorso, alle dimissioni di Matteo Renzi e alla formazione del governo Gentiloni si compie oggi, con la decisione della Corte Costituzionale sull’Italicum, la legge varata dalla maggioranza lo scorso anno per l’elezione della sola Camera dei Deputati: il testo della riforma costituzionale non prevedeva infatti l’elezione diretta del Senato. Ma la riforma è stata bocciata, il Senato resta lì tal quale e si pone ora il problema di dare al paese un sistema elettorale coerente, che consenta sperabilmente la formazione di maggioranze omogenee tra le due Camere.
Non è un’impresa semplice, dal momento che il sistema politico non si è mosso in una direzione bipolare: c’è un polo di centrosinistra che può aggregarsi attorno al Pd, e un polo di centrodestra che può costituirsi ancora intorno a Forza Italia. Ma c’è anche un polo rappresentato dal Movimento Cinquestelle, e ci sono altre formazioni da una parte e dall’altra dello spettro politico: Lega e Fratelli d’Italia sul versante destro, Sinistra italiana su quello opposto.
L’Italicum prevede il doppio turno, con un ballottaggio, al secondo turno, tra le prime due formazioni. In questo modo, con un sacrificio della rappresentanza, la legge può assicurare la governabilità del sistema. Proprio questo meccanismo è però sospettato di incostituzionalità, dal momento che, senza ulteriori condizioni di contorno, consentirebbe una sovrarappresentazione della forza che uscisse vincente dal ballottaggio. Ora, cosa comporta il giudizio di oggi se, come molti osservatori danno per certo, la Corte reputasse la legge incostituzionale? Difficile fare previsioni. Di certo, Renzi e il Pd subirebbero un nuovo smacco (piccolo o grande dipende da quanto profondo sarà l’intervento della Corte). Passato con il voto di fiducia, l’Italicum doveva essere la legge che, insieme al cambiamento della Carta fondamentale, avrebbe completato il percorso delle riforme di sistema. La sua bocciatura avrebbe oggi il significato di un’ulteriore sconfessione della strada allora intrapresa.
Anche per questo, è molto cresciuto in queste settimane il partito proporzionalista. L’Italicum aveva infatti un impianto di tipo maggioritario (molto rozzamente: chi ha anche solo un voto in più vince e governa), che funziona egregiamente quando in lizza vi sono solo due forze, ma che invece comprime tutte le altre quando, appunto, di forze ve ne sono ben più di due: come è sempre accaduto nella storia d’Italia, e come è vero anche oggi. Sconfitto al referendum, sconfitto innanzi alla suprema Corte, il partito maggioritario avrebbe difficoltà a resistere alla rivincita del proporzionalismo. Che risponde, per dirla altrettanto rozzamente, al principio per cui ciascuno conta per i voti che ha, pochi o molti che siano, si raggiunga o meno una maggioranza.
Ufficialmente il Pd rimane per una soluzione di tipo maggioritario, ma le probabilità che si trovi un accordo in Parlamento sulla proposta fatta da Renzi di tornare al Mattarellum, cioè alla legge per tre quarti maggioritaria con cui si è votato nei primi anni della seconda Repubblica, sono molto basse.
In realtà, sia dentro il Pd che fra i suoi alleati cresce la voglia di proporzionale. Per tre ragioni. Primo, perché il disorientamento seguito al referendum suggerisce alle forze politiche di rimandare il problema del governo a dopo il voto, non essendo quasi nessun partito pronto a presentarsi credibilmente in coalizione con altre formazioni. Secondo, perché col proporzionale molti pensano che sia più difficile ai Cinquestelle ottenere la maggioranza, anche qualora dovesse trovare un accordo con la Lega su una piattaforma giustizialista, nazionalista, antieuropeista. Terzo, perché una legge proporzionale allontana i segretari di partito dalla Presidenza del Consiglio. Cioè, per dirla più chiaramente, perché per Renzi sarebbe più difficile far valere la sua candidatura a Palazzo Chigi. Uno scenario possibile sarebbe infatti il seguente: Cinquestelle primo partito, ma senza una maggioranza parlamentare. L’onere di governare spetterebbe allora a una coalizione da formarsi tra le altre forze, ma che certo non potrebbe essere guidata dal segretario del Pd che non avesse vinto le elezioni.
L’ultimo fattore da considerare è il fattore tempo. È difficile che la Consulta consegni al Paese una legge elettorale bell’e fatta, già armonizzata con il sistema di voto del Senato (che è a sua volta figlio di una illegittimità costituzionale, quella del cosiddetto Porcellum). D’altra parte non si scappa: le leggi deve farle il Parlamento, a meno che la politica non voglia rinunciare completamente al suo ruolo. Ma vent’anni di affanni della seconda Repubblica dimostrano se non altro una cosa: che fare una buona legge elettorale è, per un sistema che ha difficoltà ad autoriformarsi, la cosa più difficile del mondo. E prende un sacco di tempo. Più probabile è che dunque al voto non si andrà in primavera, e forse neppure a giugno.
A meno che Renzi non riesca a far saltare il tavolo e non trovi subito il terreno sul quale sfidare Grillo e i Cinquestelle. Nel Pd è ancora lui la carta più credibile da spendere nel confronto elettorale. Al confronto, Rossi o Emiliano, Speranza o Bersani paiono tutte proposte di pura interdizione.
 
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