Alle urne quasi un elettore su due: l'astensione da valutare, la credibilità da ritrovare

Alle urne quasi un elettore su due: l'astensione da valutare, la credibilità da ritrovare
di Massimo ADINOLFI
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Martedì 5 Ottobre 2021, 05:00

I numeri danno da pensare: il dato dell’affluenza è impietoso. Ora è il momento, per chi ha vinto, di festeggiare. E per chi ha perso di imparare. Ma gli uni e gli altri, con calma, dovranno riflettere a fondo anche sul dato dell’astensione, che ha toccato livelli record. A Napoli ha votato il 47,19% degli aventi diritto. Vuol dire: un elettore su due, poco meno. Cinque anni fa, nel 2016, andò al voto il 54,12%, Un confronto con le regionali dello scorso anno consentirebbe di usare il segno più, perché lo scorso anno i votanti furono 46,1%, ma è una magra consolazione. Che in ogni caso non vale per le altre grandi città. Record negativi un po’ dappertutto: a Milano, Roma, Torino. Persino a Bologna, che vanta tradizionalmente più elevate percentuali, si toccano i minimi.

Che cosa significa una così bassa partecipazione? Detta in una volta sola: che la base di legittimità dell’ordinamento democratico si assottiglia. Non è un segnale di buona salute. Si tratta ovviamente di un fenomeno di lunga durata, che chiama in causa, in generale, il rapporto fra cittadini e istituzioni. Gli studiosi lo descrivono in vario modo: come stanchezza, logoramento, disaffezione. La percezione che nulla di decisivo possa accadere, votando in un modo oppure nell’altro, è forse il principale fattore che allontana dal rito elettorale. L’investimento, sia emotivo che razionale, nel voto, è drasticamente diminuito: l’elettorato non è più animato da furori ideologici, ma neanche da più temperati sentimenti di appartenenza, ed evidentemente si interroga anche sulla funzione dei partiti, sulla capacità di determinare il corso della politica nazionale: se almeno stiamo al caso italiano. Perché così è scritto in Costituzione, all’articolo 49, anche se non è questo lo spettacolo che i partiti offrono.

Il risultato è, in sostanza, che le principali città italiane saranno amministrate da sindaci e giunte scelte dalla metà, anche meno, del corpo elettorale. La divisione fra chi è dentro i circuiti della vita pubblica, in relazione con propri rappresentanti nelle istituzioni, in qualche rapporto con le sedi decisionali, e chi invece ne è fuori, non potrebbe essere più netta. E più preoccupante. A ragione vi è che parla di movimenti di esodo, o di forme di defezione strisciante, categorie che si situano agli antipodi della retorica democratica della partecipazione, dell’inclusione, della cittadinanza attiva e consapevole. Alain Badiou, filosofo dalle simpatie maoiste, e quindi da maneggiare con qualche cautela, ha sostenuto che ormai l’emblema democratico è vuoto. Usiamo la parola, non abbiamo più la cosa. Percentuali così basse di affluenza rischiano purtroppo di dargli ragione, e perciò impongono, a quanti hanno a cuore gli istituti della democrazia rappresentativa, di non prendere questi dati come semplicemente fisiologici, come il semplice frutto del buon funzionamento della routine democratica. 

Ma dicevamo del caso italiano. Due fattori, in particolare, credo abbiano concorso. Il governo Draghi, anzitutto, e con esso l’idea che le scelte che si compiono sono le scelte che vanno compiute, puramente e semplicemente. Le contrapposizioni politiche retrocedono di fronte all’emergenza, e con esse la necessità di schierarsi da una parte e dall’altra. È un’idea parecchio sbagliata, e forse lo si capirà meglio quando si metterà mano alle riforme e ai temi economico-sociali. Ma intanto la navigazione del governo ha un chiaro effetto di raffreddamento. A ciò si aggiunge il fatto che, in tempi di pandemia, è naturale che cresca l’affidamento ai poteri pubblici, in una funzione che i cittadini sentono come «super partes» molto più di quanto non accada in tempi ordinari. Questo significa che le parti, cioè i partiti, attraggono di meno. In sintesi si può dir così: la fiducia per Draghi è ai massimi, quella per i partiti è tuttora ai minimi.

Il che rimane obiettivamente un problema.

In secondo luogo, l’affievolirsi della fiammata populista. Qui il caso di Milano è esemplare. A Milano l’affluenza ha toccato un record negativo, ma il sindaco ha preso in termini assoluti più voti di cinque anni fa. Traduco: ad astenersi non sono stati i cittadini che hanno apprezzato l’amministrazione Sala, ma gli altri. Il che significa che, da un lato, non c’era una proposta alternativa credibile, in grado di attirare consensi e motivare al voto (Salvini del resto lo ha ammesso: coi candidati non ci abbiamo preso), e, dall’altro, che quando invece un’amministrazione fornisce un’immagine convincente, valida, fattiva, riesce a tener dentro i circuiti della partecipazione quel pezzo di città che vi si riconosce.

Si può fare, dunque, anche se solo un’analisi dettagliata del voto – quartiere per quartiere, circoscrizione per circoscrizione – potrà permettere di capire meglio a qual punto siamo: con quali segmenti dell’elettorato ricucire i rapporti, con quali pezzi di società provare ad accorciare le distanze

Ma non c’è molto tempo. E c’è molto da fare. Buona e solida amministrazione della cosa pubblica, serietà e concretezza della proposta programmatica, credibilità della classe dirigente. Temo che ci voglia qualcosa di più, e che principale responsabilità della politica sia proprio scovare questo di più.
 

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