Anno vecchio e anno nuovo, tra memoria e speranza

di Antonio ERRICO
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Domenica 29 Dicembre 2019, 19:39 - Ultimo aggiornamento: 24 Febbraio, 16:53
Il primo giorno di gennaio del 1921, Giuseppe Prezzolini annotava: “Queste divisioni di anni non contano, perché il tempo non si spezza e le persone restan le stesse. Ma servono alle volte come di sosta per guardare indietro e orientarsi”. Scientificamente, esistenzialmente, Giuseppe Prezzolini aveva ragione: le divisioni non contano, il tempo non si spezza, le persone restano sempre e comunque quelle che sono, anche se a volte vorrebbero essere diverse. 

Certo, abbiamo inventato gli orologi, le agende, i calendari, per avere l’illusione di controllare il tempo, di governarlo. Abbiamo elaborato, in ogni civiltà, in ogni luogo, rituali per sedurre il tempo, o per assecondarlo. Ma resta il fatto che il tempo è flusso ininterrotto, e va per dove e come deve andare, e non s’importa delle nostre adulazioni, delle nostre paure, e non si fa sedurre, non si fa assecondare. Il tempo che va e il tempo che viene è separato soltanto dal pensiero che al suo andare e venire dedichiamo. Niente di più e niente di meno. Non è altro che un respiro impercettibile del tempo infinito che si manifesta con le sembianze che ci sono consuete, famigliari. 

Vogliamo fare differenze fra un anno che va e un anno che viene; vogliamo rifiutare il vecchio, accogliere il nuovo, far cadere la pagina dell’ultimo mese dal calendario, disfarci dell’agenda, ricominciare daccapo. Come se fossimo aggrediti da un'ansia di trasformarci, di cambiare. Ma il tempo non si spezza, e noi restiamo sempre uguali. Probabilmente, strumenti e rituali a qualcosa sì, possono servire; probabilmente, qualche volta ci servono per soffermarci a pensare, a tirare un resoconto, a figurarci la strada che vorremmo o che dovremmo fare. Però il tempo comunque va dove e come deve andare, indifferente a tutte queste nostre convenzioni, alle scansioni che abbiamo inventato, alle suddivisioni per minuti, ore, giorni, mesi, anni, secoli, millenni. Tutte queste cose il tempo non le sa. Forse conosce soltanto le stagioni, perché appartengono alla dimensione naturale, e quindi gli appartengono.

Un anno va, un anno viene. Senza discontinuità, senza fratture. Senza occuparsi di quello che crea, di quello che distrugge.

Ogni anno che va via si trascina dietro qualcosa che vorremmo ricordare per tutta la vita, tenerci fra i pensieri più preziosi, e talvolta ci lascia qualcosa che invece vorremmo dimenticare per sempre, scaraventare in una botola priva di ogni luce.

Dell'anno che viene non possiamo sapere niente. È la rappresentazione dell'incognita, del mistero. Nei suoi confronti non possiamo avere altro che un sentimento di speranza.

In questo passaggio degli anni noi ci rispecchiamo, nel tempo del nostro esistere e nelle sue storie, e poiché non c'è mai un tempo che rassomigli a un altro passato, nessun anno che viene rassomiglia mai ad un altro che è andato. A volte questo ci fa piacere, a volte ci dispiace. A volte ci inquieta, ci impaurisce, a volte ci consola. Vorremmo che l'anno che arriva avesse certe somiglianze. Ma non siamo noi che abbiamo la facoltà della decisione; sono altri al nostro posto, per conto nostro. Chi crede dice Dio; chi non crede dice il caso, non sapendo che altro dire e forse non sapendo che in fondo sta dicendo comunque Dio anche senza nominarlo.
Il tempo della vita va così, e nessuno può davvero farci niente. Aveva perfettamente ragione Nazim Hikmet quando diceva veder cadere le foglie mi lacera dentro/ soprattutto se il cuore, quel giorno,/ non mi fa male.
Alla fine di un tempo che ci appartiene, all'inizio di un altro, avvertiamo la necessità di recuperare il senso delle cose fatte, di comprendere perché non ne abbiamo fatte altre, di fare il resoconto delle promesse che abbiamo mantenuto, di quelle che abbiamo tradito. Forse avvertiamo qualche rammarico, qualche rimpianto. Forse qualche nostalgia, qualche compiacimento.

Ma il senso profondo di ogni anno che passa probabilmente consiste nella prefigurazione che esso fa di quello che deve venire, nella sua tensione verso un tempo ulteriore, nella sua espressione di passaggio, in quel costituirsi sempre come soglia che permette all'immaginazione di entrare in un universo che ci attende con altri anni che avranno comunque lo stesso senso del transeunte, della finitudine inevitabile, dell'incognita, dell'attesa, dell'illusione.

Quello che ha senso è il nostro tempo di dentro. Da esso dipendono gli anni che attraversiamo, i nostri pensieri, la nostra relazione con noi stessi e con gli altri, da come si sente, si avverte ogni ora, forse anche ogni istante di un'estate o di un inverno, di un autunno o di una primavera.

Gli anni vengono e vanno, prendono e danno. Provocano conforto o provocano rimpianto. Qualche volta ci sembrano insensati, effimeri, vuoti; qualche altra pregnanti, traboccanti di senso. Ci sono anni, anche lontani, che ricordiamo in mondo chiaro, nitido, in ogni particolare, e ce ne sono altri appena passati di cui non abbiamo ricordi, quasi che non siano mai davvero stati. Perché il tempo certe volte scorre in orizzontale e certe altre in verticale, scende, sprofonda, ed è proprio quel tempo che si sviluppa e matura memoria, che si stratifica e configura la nostra esistenza, il nostro modo di confrontarci con gli esseri, le storie, i paesaggi, il presente, il passato, il futuro.

Il tempo autentico è quello che ci portiamo dentro, con le sue felicità e i suoi dolori. È il tempo di dentro che non conosce ambizioni, ma soltanto sincere speranze e profonde memorie.

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