Come e dove estirpare le radici del “cattivismo”

di Chiara MONTEFRANCESCO
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Venerdì 26 Luglio 2019, 13:16 - Ultimo aggiornamento: 13:17
Nell’ultimo Rapporto sulla situazione sociale del Paese, il Censis lo ha definito “cattivismo”. Attesa di cambiamento e delusione talmente avvitati insieme da generare rancore, cattiveria, diffidenza, spesso riversati sul primo che passa. Per strada o in ufficio, a casa o in vacanza, non fa differenza. Indagando le radici sociali del cosiddetto sovranismo psichico prima ancora che politico, l’Istituto ha analizzato le disfunzioni di una società non solo ripiegata quasi completamente su di sé. 
Piuttosto un funambolo che accetta di compiere un salto verso l'ignoto e che cammina, alla ricerca programmatica del trauma, sul ciglio di un fossato mai prima d'ora visto così da vicino .
Scorrendo qualche riga di questa narrazione si comprende meglio un disagio che, si legge nel Rapporto, assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio, quando la cattiveria, dopo e oltre il rancore, diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare. Il processo strutturale chiave dell'attuale situazione e l'assenza di prospettive di crescita, individuali e collettive.
Emerge un Paese che non ha risposto alla crisi con le sue forze migliori; responsabilità enorme che le classi dirigenti nel loro complesso dovrebbe essere capaci di assumere per intero. In cui il futuro è incollato al presente, invecchiato, stanco, la cui società è sconnessa, con scarsa capacità di interazione. Bassa intensità di futuro, immaginario collettivo senza forza propulsiva, impoverimento del linguaggio, poca riflessione, poco silenzio, molto schiamazzo.
Non giovanile. Piuttosto generalizzato, per ricoprire un vuoto, prima ancora che di parola, di senso.
Può aiutare quel rapporto chi fa impresa, chi vuole farla, chi non è disposto a farsi sopravanzare da schiamazzi e rancore? Più che può, deve. Ad iniziare da una considerazione su una dinamica forse ancora poco indagata nella sua giusta valenza e che potremmo chiamare eclissi della gentilezza.
Per chi fa impresa la qualità delle relazioni interne all'azienda è un tratto distintivo. Fondamentale. Il Censis lo aveva chiarito nel Rapporto 2017, quando il focus si era acceso sul rancore. C'è un paese che arranca tra disagi crescenti e nutre rancori sempre più forti, aveva avvertito, quasi del tutto inascoltato.
Paese della politica a caccia di like, lo aveva definito. Accanto, quasi fossero due entità distantissime e incomunicabili, un Paese che non si arrende, che intraprende, investe, innova, si sforza di costruire ragioni per rinsaldare pur fragili comunità. Quando parliamo della foresta artigiana, del suo valore, della sua ineludibilià, della sua capacità di autorigenerarsi, di legare memoria e futuro mettendo al centro il valore delle persone e della relazione fiduciaria e di riconoscimento, qui ed ora, all'interno dell'impresa, è a questo che ci riferiamo.
Così quando rimarchiamo come le imprese siano, innanzitutto, comunità di persone.
Attenzione! Non è buonismo di bassa lega, retorica da quattro soldi. E', piuttosto, la forte convinzione (ce lo ricordiamo tutti Adriano Olivetti e quel suo fondare non a caso le Edizioni di Comunità?) che è la qualità delle relazioni interne a fare un'impresa, soprattutto quando è in gioco la crescita, il cambio di passo, lo scatto per tenere botta. In America, dove addirittura la gentilezza è considerato un tratto distintivo del comportamento nelle imprese, valore aggiunto che fa la differenza (non stucchevole cortesia dai toni melliflui e finti, non opportunismo più o meno mascherato), la mancanza di gentilezza è stata addirittura pesata economicamente e ne è venuta fuori una cifra enorme: oltre otto milioni di dollari l'anno dove che tiene conto, tra l'altro, del tempo perso a pensare al collega sgradevole e maleducato.
Non è allora un caso se addirittura è sorto un Movimento mondiale della gentilezza (World Kindness Movement) e se il 13 novembre si celebra la Giornata mondiale della Gentilezza, nata da una Conferenza del 1997 a Tokyo e introdotta in Italia dal 2000. Come ricorda Cristina Milani, psicoterapeuta svizzera, fondatrice della onlus elvetica Gentletude e vicepresidente del Movimento: «Ci sono manager consapevoli dei danni provocati nei loro collaboratori da atteggiamenti arroganti e individualisti. La gentilezza predispone alla condivisione dei problemi, favorisce la solidarietà tra colleghi, il rispetto dei ruoli, la cura dei rapporti umani e la pazienza tra gli individui. Di conseguenza un aumento della performance lavorativa.
Non è la sola ad affermarlo.
Approda alle stesse conclusioni anche una ricerca dell'Università Bocconi svolta in anni recenti in collaborazione con Inail Lombardia che addirittura dà i giorni contati ai padroni d'azienda burberi e sgarbati, altezzosi e poco collaborativi, per dimostrare (parliamo di un campione di 400 aziende italiane) la stretta relazione tra performances aziendali e tratti caratteriali dei leader. Ad iniziare, sembrerà strano ma non lo è, dalla capacità di sorridere e di guardare negli occhi i propri dipendenti.
Naturalmente non siamo così ingenui da ritenere che le questioni strutturali di fondo, irrisolte da tempo e dunque incancrenite, quelle stesse che Censis fotografa e indaga, si risolvano con un sorriso.
Pure, abbassare il gradiente del rancore, della rabbia a mezzo rabbia, elementi purtroppo nutrimento anche di politiche che invece dovrebbero costruire ben altri paradigmi di riferimento, sostenendo ad esempio più convintamente le ragioni della buona economia e di quella foresta artigiana prima richiamata, può essere un piccolo prezioso viatico.
 
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