Come attaccare la malapianta del rancore

Come attaccare la malapianta del rancore
di Adelmo GAETANI
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Domenica 17 Dicembre 2017, 21:25
Il 51.mo Rapporto Censis sulla situazione sociale italiana ha trasmesso la fotografia di un Paese in ripresa, eppure prigioniero di un diffuso stato d’animo di rancore che si va radicando in strati sempre più vasti della popolazione. Il rancore, si legge sullo Zingarelli, è “un sentimento di malanimo, di astio, di risentimento che si tiene nascosto”.
In realtà, da noi di celato negli anfratti intimi di una rabbia privata c’è poco o niente. Anzi, l’insoddisfazione, il ribellismo, la protesta, il “vaffa” rivolto a tutto e a tutti sembrano caratterizzare il vissuto quotidiano ed esibito di una società che si sente impaurita, sfilacciata, squilibrata, privata della fiducia nel futuro.
I segnali di una frattura profonda tra rappresentanze politiche, non senza colpe, e cittadini sono molteplici e visibili: c’è l’astensionismo elettorale, che ormai tocca e supera il 50%; c’è la sfiducia nel governo del 78% degli italiani (Censis); c’è la presenza di nuovi partiti che attraggono notevoli consensi con proposte oscillanti tra populismo, demagogia e giustizialismo; c’è l’ossessiva richiesta di autorità di controllo o figure tecniche non elettive, alle quali demandare l’esercizio di poteri che in una democrazia governante dovrebbero fare riferimento ad Istituzioni legittimate dal consenso popolare; c’è poi l’indignazione continua che tutto tiene e trova nei social il punto di raccordo e di proliferazione senza limiti di quantità e di qualità, senza distinzione tra falsità e verità.
Sarebbe possibile intervenire e correggere le pulsioni della società del rancore se alla base non ci fosse un diffuso disagio materiale che alimenta, come l’alcol su un fuoco accesso, il sentimento di distacco e di protesta. E proprio su questo terreno la politica e i governi hanno dimostrato la loro incapacità di intervenire in tempo per cancellare privilegi, correggere distorsioni, distribuire più equamente il dividendo della ripresa, a partire da politiche del lavoro attive, e, finalmente, sbloccare la mobilità sociale e indirizzare su un terreno di equilibrio il rapporto Nord-Sud.
Tutte cose che non sono state fatte, in alcuni casi si è intervenuti con misure condizionate da improvvisazione e calcoli errati che hanno sortito l’effetto opposto rispetto alle intenzioni.
Così oggi l’Italia si trova a fronteggiare due grandi emergenze sociali che da sole bene spiegano i sentimenti negativi dominanti: sono la povertà e la disoccupazione aggravata dalla precarietà nei rapporti di lavori.
Secondo l’ultimo rapporto Eurostat nel 2016 l’Italia ha registrato il più alto indice di povertà in Europa con quasi 10,5 milioni di cittadini in stato di indigenza. Dati confermati dall’Istat che, sempre nel 2016, ha evidenziato un record storico (20,6%) delle persone a rischio povertà (sono quasi 5 milioni i poveri assoluti) e a rischio esclusione sociale (30%). Misure di contrasto alla povertà sono state varate negli anni, ma tutte tardive e comunque inadeguate a fronteggiare un fenomeno che andava dilatandosi con il protrarsi della crisi economica esplosa dieci anni fa. Dal prossimo gennaio entrerà in vigore il nuovo reddito di inclusione (Rei), finanziato con due miliardi di euro, che inizialmente consentirà di venire incontro alle esigenze primarie di circa mezzo milione di famiglie indigenti. E’ un passo significativo, ma è solo il primo passo per cementare una società che, se vuole ritrovare un suo equilibrio, non deve e non può lasciare indietro nessuno.
L’altro aspetto dell’emergenza sociale è il lavoro, quello che non c’è e quello che c’è, ma sotto forma di una precarizzazione senza fine che toglie sicurezze e certezze sul futuro. La tanto declamata epopea delle riforme creative sull’occupazione è andata a sbattere contro un dato di realtà che deve far riflettere il legislatore e gli studiosi. Il primo rapporto annuale congiunto che il Ministero del Lavoro ha elaborato insieme ad Anpal, Istat, Inps e Inail ha registrato l’allarmante fenomeno dei lavori di breve e brevissima durata con un orizzonte occupazionale inferiore ai tre mesi. Gli occupati con questi contratti, privi di tutele e di prospettive di stabilizzazione, sono passati dai 3 milioni del 2012 ai 4 milioni del 2016 con un incremento del 29%. In sostanza, si tratta di “lavoretti” effettuati dagli occupati a bassa intensità, molte volte di un solo giorno a settimana, quasi sempre affidati ad under 35. Nel caso del cosiddetto lavoro somministrato è stata riscontrata un’attività media nell’anno di soli 12 giorni. Queste situazioni di precarietà estrema, prive di qualsiasi prospettiva, servono a gonfiare artificiosamente le statistiche ufficiali sull’andamento dell’occupazione e a far contenti politici e commentatori poco accorti e noncuranti delle condizioni reali di vita dei cittadini, in particolare dei più giovani costretti ad una esistenza drammatica nel momento in cui l’unica fonte di sostentamento diventa il lavoro occasionale, quasi sempre di poche ore al giorno, o di pochi giorni al mese o di pochi mesi all’anno, tutto nel segno della più assoluta incertezza.
In queste condizioni, tra povertà diffusa e precarizzazione del lavoro che a sua volta diventa una sorta di agevole apripista verso la povertà, è davvero impossibile rimuovere il sentimento di rancore che si va diffondendo per sostituirlo con una visione positiva della vita e dei rapporti sociali.
La campagna per eleggere il nuovo Parlamento, già iniziata, non è avara di proposte, impegni e promesse roboanti da parte delle forze politiche. Sino all’apertura delle urne, agli inizi di marzo, si sprecheranno i fuochi d’artificio, anche l’impossibile sarà venduto come possibile sul mercato elettorale. Ma toccherà al governo insediato dopo il voto dettare le ricette per rispondere ai problemi che più toccano la carne del Paese. È giusto discutere di tutto e su tutto, ma sarebbe un errore se le principali emergenze sociali non dovessero avere la priorità assoluta. La povertà non è tollerabile, così come non può essere ulteriormente accettato un mercato del lavoro che fonda giuridicamente la sua esistenza su rapporti di precarietà di uomini e donne senza tutele e senza sostanziali diritti.
Se una società, come dovrebbe essere, teme i frutti velenosi che il rancore, la rabbia e l’invidia possono generare, deve mettersi all’opera per tagliare le radici alla malapianta. Finché è in tempo.

 
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