Ma Greta non deve diventare un alibi

Ma Greta non deve diventare un alibi
di Renato MORO
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Venerdì 27 Settembre 2019, 17:17 - Ultimo aggiornamento: 30 Gennaio, 21:30

La Val Ferret è un dei luoghi più incantevoli della Val d’Aosta. D’estate è meta di turisti che dormono negli alberghi di Entrèves e Courmayeur, nelle baite ristrutturate dai figli degli allevatori oppure campeggiano nelle radure lungo il corso della Doire de Ferret, dove è possibile anche pescare le trote. Da qualche giorno parte della valle è chiusa al traffico delle auto e ai pedoni perché è sempre più alto il rischio che una lingua del ghiacciaio di Planpincieux venga giù. Oltre 250mila metri cubi di ghiaccio scivolano verso il fondovalle alla velocità di 35 centimetri al giorno. Forse una catastrofe annunciata o forse un’eccessiva preoccupazione, ma intanto gli occhi di mezza Italia sono puntati lì.

È un piccolo, modesto contributo del nostro Paese all’emergenza clima che oggi richiamerà nelle piazze di tutta Italia centinaia di migliaia di studenti: i “Greta boys”. Tutti mobilitati sulle orme della sedicenne svedese che solo pochi giorni fa, all’Onu, le ha cantate ai grandi della Terra regalandosi quello sguardo glaciale col quale - secondo i social e i giornali che li hanno ripresi - ha fulminato il presidente Trump.
Dall’Onu, oltre al discorso della giovane Greta, è venuto fuori anche dell’altro. L’ultimo rapporto sullo stato di salute del pianeta Terra parla una lingua inquietante. Da qui ai prossimi 80 anni i mari si innalzeranno di almeno trenta centimetri (ipotesi ottimistica, mentre i pessimisti parlano anche di un metro), contro i quindici registrati nel secolo scorso.
Due miliardi di persone potrebbero trovarsi costrette ad abbandonare i loro luoghi, mentre megalopoli come Los Angeles o Bangkok potrebbero finire in parte sott’acqua. Scenari catastrofici quanto irreali? Per gli scienziati che hanno firmato il rapporto delle Nazioni unite proprio no.
È per tutto questo, o contro tutto questo, che oggi si scende in piazza. In questi giorni s’è scritto e s’è detto tanto su Greta. I suoi fan l’hanno scelta come simbolo della rivolta dei giovani stanchi dei guasti che i padri stanno arrecando al pianeta. I detrattori parlano e scrivono di interessi oscuri che si nasconderebbero dietro di lei, della mamma troppo interessata alla fama della figlia, della sfacciataggine che la ragazza dimostra in presenza dei grandi per la quale tirano in ballo persino la sindrome di Asperger, malattia di cui Greta sembra soffrire.

Esercizio del tutto inutile. Il problema non è disquisire su chi o cosa si nasconda dietro quel viso di adolescente svedese. Il problema, o meglio il vero rischio, è che si finisca per trasformare Greta in un alibi. Un alibi per nascondere i nostri antichi guai dietro i grandi temi - certamente importanti, se non ancora più importanti - che saranno al centro delle manifestazioni di oggi. Combattere il riscaldamento del pianeta, mobilitarsi e cambiare per salvare il clima non vuol dire solo tentare di condizionare le scelte della politica internazionale. Non per noi, almeno. Come ogni rivoluzione che parte dal basso, la difesa del pianeta richiede un maggior rispetto dell’ambiente in casa nostra, nelle nostre città e nei nostri paesi. Richiede la capacità di effettuare scelte coraggiose, di modificare abitudini e costumi che finora non siamo riusciti a modificare.
Greta viene dal Nord Europa, terra che non conosce l’emergenza rifiuti. Dove le famiglie vanno a passeggiare o addirittura a sciare sui tetti dei termovalorizzatori, dove il traffico è sotto controllo e presto sarà vietata la circolazione delle auto mosse da motori a combustione inquinante. Dove le piste ciclabili sono spesso più lunghe e più curate delle autostrade, dove l’ambientalizzazione o la riconversione delle fabbriche inquinanti è realtà da tempo e non ancora sulla carta.

I ragazzi che stamani scenderanno in piazza non devono dimenticare che vivono in Puglia, regione dove tuttora non si riesce a chiudere il ciclo dei rifiuti. Dove - ecco il paradosso - inquiniamo per poter pulire, visto che siamo spesso costretti a spedire con i tir al Nord (o addirittura in altri Paesi europei) la spazzatura che produciamo. Chi oggi sciopera non può sottrarsi alla responsabilità di vivere in una regione in cui le discariche crescono di giorno in giorno, dove montagne di rifiuti tossici sono finite sottoterra, dove la gente continua a liberarsi di ogni schifezza abbandonandola nelle campagne. Dove si spacciano marciapiedi per piste ciclabili, dove il trasporto pubblico non riesce a garantire un’efficienza tale da proporsi come sostitutivo del trasporto privato. Dove l’acciaieria più grande d’Europa attende ancora l’ambientalizzazione e nel frattempo risulta essere tra le prime fonti di Co2 in tutta Italia. Dove gran parte degli luoghi pubblici, le scuole prima di tutto, sono ancora riscaldati da vecchie caldaie a gasolio. Tutte questioni per le quali nessuno è mai sceso in piazza.

Certo, è di vitale importanza - per noi e per il pianeta - che Trump riconosca gli accordi di Parigi. Che India e Cina correggano la loro incessante corsa allo sviluppo adottando regole certe e tecnologie moderne per non inquinare. Che la produzione e il consumo di plastica subiscano una drastica riduzione prima che gli oceani vengano soffocati. Tutto ciò è importante ed è giusto scendere in piazza. Ma non nascondiamo i nostri errori dietro lo sguardo truce di Greta.
renato.moro@quotidianodipuglia.it
 

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