Cento anni dopo Max Weber: la "gabbia d'acciaio" e la modernità del suo pensiero

di Stefano CRISTANTE
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Sabato 19 Dicembre 2020, 15:16

Cento anni fa, nel 1920, moriva il grande scienziato sociale Max Weber. Lasciava un mondo da poco sopravvissuto alla carneficina della prima guerra mondiale e appena uscito dalla controversa Conferenza di pace di Versailles del 1919, cui Weber stesso partecipò come delegato della Germania. Il sociologo era nato nel 1864. Quando morì ne aveva dunque solo 56: fu stroncato dall’epidemia d’influenza spagnola. Un fatto, questo, che lo ricollega al nostro triste presente. Si tratta però solo di uno dei segni del suo legame con noi, perché la sua presenza continua a esercitare un’influenza profonda sul pensiero sociale mondiale.

Weber scrisse – e agì – su tutte le grandi questioni che continuano ad agitare il mondo occidentale. Intellettuale borghese, consapevole del peso dell’ideologia socialista nella sua epoca, si immerse in un lavoro di scavo delle radici del capitalismo per offrire un’alternativa complessa alla lotta di classe e alla concezione materialistica della storia, che Marx ed Engels avevano fissato come fondamenta di una filosofia della prassi rivoluzionaria. Era necessario smantellare il rapporto di causa-effetto tra la “struttura” economico-sociale del sistema capitalistico e la “sovrastruttura” culturale che lo rappresentava. Questa relazione, secondo Weber, non poteva essere considerata un automatismo: ci si poteva anzi spingere fino a ipotizzare che alcune potenti istanze culturali contribuissero a sedimentare comportamenti che avrebbero avuto un ruolo “genetico” nella formazione del capitalismo europeo. Uno dei suoi capolavori, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904), propose una tesi ardita: per concepire l’idea di accumulazione del capitale occorre riconsiderare l’importanza del protestantesimo (soprattutto nella variante calvinista) nel Nord Europa. In una teologia fondata sull’idea di una predestinazione dei destini individuali, seguire l’impulso della grazia significa assecondare i disegni divini. È questa l’origine della tesi weberiana dell’«ascesi intramondana», che potremmo definire come un sistema di credenze che spinge all’attività economica mercantilistica e poi industriale senza adottare comportamenti di largo consumo e dissipatori. Il successo economico può così diventare “il segno” della condotta di vita preferibile nel cristianesimo riformato; un successo che si incontra con pratiche parsimoniose e austere capaci di mettere da parte quote crescente di capitale, pronte a trasformarsi, nel corso del tempo, in investimenti adeguati alla logica capitalistica. Weber non nega l’influenza di altri fattori, ma spezza l’automatismo tra situazione economica e riflessi culturali, disegnando un’opposta spiegazione causale: proprio dalle idee dell’uomo moderno si può giungere al suo modo di affrontare la lotta per le risorse, e questa inversione potrebbe anche indicare che non è obbligatorio pensare al sistema sociale unicamente votato alla promozione dei valori sostenuti dall’apparato economico. La grande trasformazione può scaturire anche dal cambiamento delle idee religiose, artistiche e scientifiche.

Weber d’altronde non era affatto insensibile ai deficit che il capitalismo presentava alla sua epoca, e sentiva forte l’urgeva di modificare in profondità il sistema.

Il sociologo si concentrava però soprattutto sulla cosiddetta “razionalizzazione”, vale a dire sulla tendenza a ottimizzare tempi e modi della vita moderna seguendo istanze e mentalità procedurali, burocratiche e spersonalizzanti. Una delle sue metafore più universalmente note è quella della “gabbia d’acciaio”: una struttura forte e inscalfibile in cui l’individuo crede di poter agire liberamente, e che invece lo blocca e lo rinchiude. Weber sembra guardare anche a se stesso come a una mente costretta a un continuo auto-contenimento: la sua penna infaticabile si muoveva tra analisi di antiche religioni e dense genealogie dello sviluppo urbano post-medievale, tra l’attenzione alle nuove pratiche del giornalismo e la tenuta di un’etica della professione politica, tra la necessità di agire collettivamente e le prime sirene del “disincanto” della modernità.

Per lunghi periodi soffrì di acute depressioni, tanto da dover lasciare l’insegnamento accademico per alcune stagioni. In altri periodi fu talmente prolifico da sembrare avvolto da mania. Sono caratteristiche che ce lo rendono più vicino, quasi contemporaneo, avvolto da un’aura di tragica grandezza: un titano in una gabbia d’acciaio, ferocemente critico con il potere burocratico-militare bismarckiano e troppo riformista per essere accolto dai conservatori, ma ugualmente distante dai mille rivoli delle ideologie rivoluzionarie. Pescò dal suo genio argomentativo la necessità di distinguere tra i valori propri del ricercatore sociale e l’impostazione delle sue attività di ricerca, biasimando chi cercava di sovrapporre meccanicamente le proprie convinzioni personali con l’osservazione dei fenomeni sociali. In poche pagine costruì anche una tipologia tripartita delle forme del potere (tradizionale, razionale-legale e carismatico) che focalizzò le possibilità di esercizio di un’autorità personale anche nelle maglie dello sviluppo industriale. In pratica, Weber intuì che la logica del capitalismo non era necessariamente vincolata allo sviluppo della democrazia, e anche questo tassello ci racconta l’anticipazione di un tema che si ripropone drammaticamente nel nostro tempo, oltre la durata novecentesca.

L’Associazione italiana di sociologia gli ha dedicato un’intera settimana, attraverso un ampio convegno online dal lungo titolo: “Ripensare la società nelle emergenze e nelle trasformazioni globali – con Max Weber, 100 anni dopo”. Studiosi di fama e giovani dottori di ricerca hanno potuto confrontarsi sulle tante parti dell’indagine weberiana, per riscoprire – anche in video-interventi veloci di pochi minuti – che è possibile analizzare le urgenze del nostro mondo grazie all’organizzazione e all’intensità intellettuale di un genio che sapeva di vivere i precipizi di una modernità inquieta e agitata, incapace – se lasciata a se stessa e ai propri spiriti animali – di fornire un progetto duraturo all’umanità.

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