La questione energetica: l'esplosione delle bollette figlia di un destino tutt'altro che cinico e baro

di Antonio MANIGLIO
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Mercoledì 23 Febbraio 2022, 05:00

L’Ilva di Taranto, l’Enichem di Manfredonia, la Fibronit e la Stanic di Bari, il petrolchimico e il carbone a Brindisi: sono i nomi simbolo della Puglia avvelenata. I luoghi dove il mitico “posto in fabbrica” si è tramutato in degrado ambientale ma anche in malattia e lutti. Dalla Daunia al Salento – dove si registra “l’anomalia” di una delle più alte percentuali di tumore al polmone in Italia - i pugliesi portano sulla loro pelle le cicatrici inferte da un’industrializzazione selvaggia. Per rispetto a quanti hanno attraversato il tunnel della sofferenza e del dolore o, come accade a Taranto, non ne sono ancora usciti, è bene – come recita una poesia di Anne Sexton - non usare le parole sbagliate: “Uova e parole vanno maneggiate con cura/ Una volta rotte non si possono riparare”. E quindi: un gasdotto non è una centrale a carbone, un parco eolico non resuscita la Montedison e qui in Puglia non c’è all’orizzonte un nuovo disastro ambientale o sanitario. Seminare paura e demonizzare ogni iniziativa che tende a irrobustire il profilo energetico del sistema paese, compresi gli impianti di fonti alternative, è semplicemente miope. A maggior ragione nel pieno di una crisi energetica globale. 

La sacrosanta difesa dell’ambiente non è data dalla somma dei no (ideologici) che si mettono in fila. Troppo facile. Servono invece politiche, progetti e risorse per sostenere la riconversione ecologica dell’economia (preoccupandosi possibilmente anche dei lavoratori e non solo della posidonia), bisogna pretendere massima trasparenza nella valutazione di impatto ambientale, oltre che sui costi e benefici per ogni insediamento industriale o energetico, ma la Puglia e l’Italia non possono rinunciare a una strategia di sviluppo sostenibile all’altezza di un paese avanzato. Traduzione: le bollette che esplodono, mettendo in grave sofferenza le famiglie e strozzando le imprese, non sono il frutto di un destino cinico e baro. Sono piuttosto gli effetti collaterali della serie infinita di No inanellati in questi anni: no tap e no gas, no trivelle, no pale, no nucleare, no pannelli. Risultato: oggi l’Italia, è un paese disarmato, che ha messo il rubinetto energetico in mani straniere e per questo è alla mercé di ogni turbolenza dei mercati. Come sempre parlano i numeri: l’Italia importa (e paga) ben il 73% dell’energia che consuma (la Francia il 48%), acquista il 93% del gas (in gran parte dalla Russia), utilizza per un terzo del fabbisogno l’energia nucleare che ci vende la Francia con le sue 56 centrali, produce il 20% di energia dalle rinnovabili. Eppure nonostante un simile deficit energetico siamo stati capaci di bloccare l’estrazione del gas nazionale, passando da 17 miliardi di metri cubi (2019) a 4 miliardi (2020). Roba da Tafazzi incalliti. Ora il governo Draghi si sta industriando per mettere qualche pezza, oltre a 7 miliardi di euro, ma non si può sostituire l’inesistenza di un piano energetico con i bonus emergenziali. 

È utile pertanto ripartire dai fondamentali: l’Italia non è la Cecenia, siamo il settimo paese industrializzato al mondo.

Il lavoro e l’impresa sono la spina dorsale su cui si regge l’intera società e da cui si irradiano opportunità, ricchezza, la rete dei servizi collettivi (dalla sanità all’istruzione). Ogni attività produttiva, anche quella che banalmente ci consente di mangiare melanzane e peperoni tutto l’anno, oltre che produrre beni di prima necessità, assorbe quote rilevanti di energia. Ciascuno di noi, d’altronde, è un energivoro. Non vogliamo rinunciare (giustamente) alle nostre “comodità”, al riscaldamento o all’aria condizionata nelle case, negli uffici, nei negozi. Il vivere civile ci impone di riscaldare (o raffreddare) ospedali, scuole. Le nuove tecnologie, a cominciare dai computer o dai cellulari, divorano energia (e producono Co2). La sicurezza e l’autonomia energetica quindi – sia detto ai professionisti del no - non sono un lusso ma la pre-condizione per rimanere un paese moderno, capace di crescere e di allargare le maglie del benessere.

È vero, oggi il tema è la transizione ecologica, ma qualche avvertenza è d’obbligo. Non c’è un interruttore magico che all’ora x consente di passare dalle fonti energetiche tradizionali alla modalità “lu sule, lu mare, lu ientu”. La transizione è un processo graduale che ci obbligherà a convivere per tempi medi-lunghi con le fonti fossili (con l’eccezione, si spera, del carbone). Basta allargare lo sguardo all’universo mondo per rendersene conto. Nel 2021 gli Usa hanno incrementato addirittura del 17% l’uso del carbone, nel continente asiatico la via dello sviluppo è fondata su carbone e nucleare (solo in Cina negli ultimi dieci anni sono state costruite 39 nuove centrali!).
Certo, ci sono le energie rinnovabili. Il futuro è lì. Ma allo stato attuale, a parte le lungaggini burocratiche (solo in Puglia giacciono 500 richieste di impianti in attesa di autorizzazione), ci sono alcuni problemi evidenziati dagli scienziati: anzitutto l’intermittenza nella produzione (la notte è un po’ complicato sfruttare l’energia solare); in secondo luogo l’assenza di una rete intelligente di smistamento per utilizzare l’energia dove serve; in terzo luogo non si è ancora trovata la soluzione per immagazzinare l’elettricità in batterie con capacità di accumulo di 400 Gigawattore che richiedono materiali rari come il litio, il cobalto e il nichel. Non proprio bazzecole, insomma. Anche per le fonti alternative pertanto servono maggiori investimenti nella ricerca e nella produzione. E ci vuole tempo. 
In Italia si produce un nuovo Gigawatt all’anno da fonti rinnovabili, per centrare l’obiettivo del 30% di energia “naturale” entro il 2030 occorrerebbe produrne sette. Conclusione provvisoria: soluzioni facili a problemi complessi si trovano solo su twitter o facebook o nei deliri populisti di pezzi della politica. Per il resto, ossia per dare risposte efficaci a una sfida inedita, occorre affidarsi ancora una volta alla scienza e alla ricerca, oltre che alla lungimiranza della buona politica.

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