La bellezza dell'arte popolare nei nostri paesi

di Antonio ERRICO
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Domenica 28 Aprile 2019, 21:20
Una città del Salento. Non grande, non piccola. Una media città. Un paese che d’inverno è soltanto paese e che nei giorni d’estate, di festa, di ponte, diventa città d’arte e vacanza. La gente va e viene per le strade del borgo antico, entra nei negozi, nelle chiese. 

Esce, parla lingue diverse, si siede ai tavolini dei bar, guarda le nuvole che si fanno più gonfie, si chiede se pioverà o non pioverà. Il vento della primavera si sfrena dentro i vichi, si schianta sui frontoni dei palazzi, scuote i lampioni, vortica nelle corti, si attorciglia agli angoli.

In un minuscolo slargo che si apre inaspettato al termine di una scalinata, c’è una statua di uomo senza nessuna indicazione, senza nessuna identità. Di fronte, sulla facciata di una casa imbiancata a calce, come creatura affacciata alla finestra, l’immagine di una Madonna che con un braccio sostiene il Bambino e con l’altro una brocca dell’acqua.

La gente si ferma ad osservare la statua d’uomo senza indicazione e identità, fotografa, fotografa, e non si accorge di quell’opera d’arte popolare, di quel sorriso di Madonna compiaciuto e rasserenante, di quella figura dipinta da un dilettante che per il convicinato certo rappresentava l’artista devoto, colui che riusciva a mettere insieme estetica e preghiera, pietas e orgoglio, ringraziamento e implorazione.

Quelle forme dall’incerta prospettiva, quell’affresco ghermito da un umidore verdastro, conducono il ricordo verso alcune pagine straordinarie di quel dimenticato libro di raffinati elzeviri che s’intitola “Secoli fra gli ulivi”, pubblicato nel Cinquantotto da Fernando Manno.

Dice Manno che in quelle figure schiacciate, in quei colori che percorrono il paese e si soffermano in certi angoli come in mulinelli infiniti, si ritrova il retaggio medievale di un sentire religioso allo stesso tempo atterrito e commosso, rimasto allo stato puro, stratificato come un’essenza collettiva immutabile.

Ma la gente volta le spalle all’edicola votiva e guarda e fotografa la statua anonima. Forse non è facile capire il motivo. Forse capire il motivo è facilissimo. Forse la gente si ferma ad osservare, a fotografare, perché la statua ha un’evidenza, una certa imponenza. Forse perché la nostra relazione con le forme e con le espressioni della vera o presunta bellezza è determinata e condizionata dal livello di visibilità. Forse perché una sorta di pigrizia ci impedisce di andare a cercare quella vera o presunta bellezza che in qualche modo si nasconde o non si mostra apertamente. Forse perché è passato il tempo in cui si aderiva ideologicamente alle proposte dell’arte popolare.

Queste ipotesi possono essere tutte vere oppure tutte false, come può essere vera oppure falsa quell’altra secondo la quale siamo richiamati, oltre che da quello che risulta immediatamente visibile, da quello che è fortemente pubblicizzato: un libro, una mostra, uno spettacolo.

Non è un’opera d’arte la Madonna col Bambino e la brocca dell’acqua. I tratti sono quelli dell’improvvisazione, dell’incertezza. Il Bambino, poi, ha il naso sproporzionato, con le narici grandi come due noci.
Ma non è un’opera d’arte nemmeno la statua senza indicazione né identità. Non ha sproporzioni, forse, ma non ha nemmeno espressioni, non ha movimento.

Si può passare accanto all’una e all’altra senza volgere lo sguardo nella certezza che non se ne avrà rimpianto. Se però per tutto il giorno si fotografa la statua e si ignora l’edicola votiva, forse significa proprio che l’interesse è suscitato non dalla qualità del prodotto ma dalla sua quantità. Conta quello che si vede, anche se non vale. Il valore è attribuito dalla quantità, dalla visibilità. Forse si potrebbe anche aggiungere: dalla capacità di ingombro. Così, fra due cose che non hanno bellezza, a quella più visibile se ne attribuisce una e a quella meno visibile invece nessuna.

Ancora: è la quantità di pubblico che decide l’opera. (Ormai una vecchia storia). Si compra il libro che tutti gli altri comprano, si vede il film che tutti gli altri vedono, si ascolta il disco che tutti gli altri ascoltano. Per il resto non c’è tempo, non c’è spazio; non c’è curiosità, non c’è desiderio di una conoscenza.

Si guarda e si fotografa la statua che tutti gli altri guardano e fotografano. Non c’è tempo e non c’è spazio, non c’è curiosità e non c’è desiderio per l’edicola votiva di Madonna col Bambino.

Non ci interessa la storia che si porta dentro le rughe di colori smorti, la sua narrazione muta che dice di umili esistenze che negli anni e negli anni le si sono rivolte per conforto e per speranza.

Le sue dimensioni e le sue condizioni non sono così consistenti da imporre un’attenzione al nostro sguardo. La sua bellezza è timida, dimessa. Forse nega se stessa. Nel paese fatto città per il giorno della Pasquetta, lentamente comincia ad imbrunire. Anche il vento sembra che si plachi un poco. E’ più leggero, più docile, più tenero.

Una donna con lo scialle in testa esce da un basso. In una mano tiene un vaso con un mazzetto di margherite. Gira intorno allo slargo, evitando la gente. Si avvicina alla Madonna col Bambino. Da un angolo della nicchia prende un altro vaso con tre calle rinsecchite e lascia quello con le margherite. Poi si fa il segno della croce e portando alle labbra le nocche dell’indice e del medio manda un bacio a quelle figure screpolate. Sembra provenire da un altro tempo, da una irrealtà, da una letteratura. Sembra essere arrivata lì fuggendo dalle pagine di Fernando Manno, dopo un viaggio durato sessant’anni.

Con il suo silenzio, con il gesto di quel bacio, sembra che dica con le parole del libro dal quale proviene che, anche senza una nostra consapevolezza, le icone ci portano lontano, dentro il senso del tempo di questa terra, in fondo ai segreti della sua memoria.

Si è fatto buio. Intorno alla statua non c’è più nessuno. L’immagine della Madonna s’intravede appena. Il vento è ritornato, prepotente.


 
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