Se per umiltà rinunciamo alla bellezza

di Antonio ERRICO
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Domenica 11 Marzo 2018, 20:07
Certe volte, attraversando una città oppure un paese, indifferentemente, accade di domandarsi quale bellezza questo tempo stia lasciando in eredità al tempo a venire. A noi sono state consegnate cattedrali, monumenti, statue nelle piazze, torri, castelli. 

Una straordinarietà realizzata in armonia con i paesaggi e con le culture che un’epoca esprimeva e nelle quali in qualche modo, anche conflittualmente, si rispecchiava. Sicché diviene quasi naturale domandarsi che cosa stia lasciando l’epoca che corre, con quali forme ed espressioni racconta le sue visioni del mondo, in quali rappresentazioni di culture si rispecchia. Forse si potrebbe dire, assai genericamente, che la cultura nella quale si rispecchia, con la quale si confronta, è quella della complessità. Va bene. Probabilmente è la complessità che costituisce la condizione essenziale del tempo che si vive, salvo poi a dover dimostrare che il passato non sia stato complesso, che lo sia stato meno del presente, che non sia stato attraversato da contrasti, contraddizioni, conflitti, più o meno dichiarati, più o meno sotterranei. Ma la complessità comunque va bene. Siccome è con questa parola che giustifichiamo tutto, per esempio le nostre incapacità di risolvere problemi, per esempio le nostre difficoltà di convivenza, per esempio le nostre superficialità, i nostri disinteressi, le nostre apatie, questa parola come alibi va bene.

La complessità ha una sua bellezza. Allora, mentre si attraversa una città oppure un paese, indifferentemente, accade di domandarsi quali siano le architetture che rappresentano la bellezza della complessità.
Ci si guarda intorno e la bellezza che si vede appartiene al passato, racconta altre storie: con linearità, con articolazioni complesse, con equilibrio, in qualche caso anche con lo squilibrio, sontuosamente, modestamente. Ma tutto appartiene al passato. Noi bellezza non ne abbiamo costruita. Noi abbiamo costruito piattezza e uniformità, che sono il contrario della complessità, casamenti grigi, periferie scure, deformità determinate dall’incompatibilità fra quello che esisteva e quello che si andava facendo; nella definizione di funzionalità abbiamo ricompreso qualsiasi assenza di eleganza, di raffinatezza, qualsiasi scelta anche di imbruttimento dell’antico oltre che di bruttezza del moderno.

E’ inevitabile domandarsi che cosa sia successo. Non è pensabile che questo tempo non abbia una idea di bellezza oppure che non abbia capacità, mezzi, strumenti, metodi, possibilità per realizzarla.
Forse, semplicemente, non ha interesse per la bellezza. Semplicemente è indifferente nei confronti della bellezza.

Ha rinunciato ad essa. Così la complessità sociale, culturale, esistenziale di questo tempo, non ha una bellezza che la rappresenti, che la racconti attraverso forme coerenti o perfino incoerenti in quanto la complessità di ogni genere produce anche incoerenza, inevitabilmente.

Di conseguenza è un tempo senza bellezza che affida la propria sensibilità alla bellezza di un altro tempo. Così il nostro rapporto con la bellezza è riferito soltanto al passato: ai centri storici, ai borghi, a certe piazze, a certi campanili che traducono l’ansia degli uomini di arrivare fino al cielo, a certe le chiese che possono accogliere la preghiera di ogni fede.

La complessità del nostro tempo non è riuscita a trasformarsi in bellezza, ad esprimere le assonanze e le dissonanze, la simmetria e l’asimmetria, la proporzione e la sproporzione, l’ordine e il caos, l’esperienza e il sentimento del tempo, l’immaginazione e la configurazione dello spazio.

Non abbiamo interesse. Siamo indifferenti. Però viene anche il sospetto che tutto questo accada per una sorta di pudore, per una sensazione che non sia possibile superare la bellezza che il passato ha realizzato, che non sia possibile eguagliarla, per cui anziché abbassarne il livello, ridurne la qualità, si preferisce rinunciare a realizzarla, persino a pensarla. Può darsi che più o meno consapevolmente si ritenga che la perfezione delle cattedrali non si potrà mai più avere, che il fascino misterioso degli affreschi non si potrà mai più ricreare, che la sensazione di vertiginoso stupore che si avverte davanti ad un campanile non si potrà mai più suscitare. Può darsi che sia questa la ragione che ci induce a rinunciare, a privarci della possibilità di realizzare bellezza.

Allora, forse, non lo si fa per disinteresse, per indifferenza, ma per umiltà. Forse pensiamo che tutta la possibile bellezza sia stata già rappresentata. Mentre nei contesti della scienza si procede con eccezionale rapidità perché si considera che molto resti ancora da scoprire, che moltissimo ci possa ancora meravigliare, entusiasmare, rispetto all’arte, all’architettura, rispetto alla bellezza dei luoghi, si resta fermi, immobili. Per quel senso di umiltà, quella sensazione di inadeguatezza, per la certezza che la bellezza già creata sia difesa da un destino di irripetibilità. Comprendo che si tratta di un’ipotesi assolutamente indulgente nei nostri confronti, che risulta del tutto incompatibile con quelle azioni, o quelle inerzie, che ignorano o deturpano o trascurano la bellezza.

Però potrebbe pure essere così. Ma anche se l’ipotesi fosse fondata, non ci potrebbe comunque assolvere dal peccato, consumato nei confronti di questo tempo e di quello futuro, di non lasciare testimonianza della bellezza.

In “Crisotemi”, uno dei quattro poemetti di Ghiannis Ritzos, c’è un verso che dice così: “Soltanto l’amore – come dicono – e la bellezza – resistono un poco al tempo”.

Quando si attraversa una città oppure un paese, indifferentemente, ci si rende conto che l’unica cosa del passato che resiste è la bellezza. Non le creature e neppure molte storie di quelle creature. Resiste la bellezza che hanno saputo costruire, forse proprio perché sapevano che quella bellezza sarebbe stata l’unica cosa che avrebbe potuto far vedere che cosa fossero in grado di pensare, che cosa sapessero fare con le loro mani.
Davvero non saprei dire quale bellezza stiamo lasciando in eredità a coloro che fra un secolo attraverseranno una città o un paese.

Certo, resisterà ancora l’antica bellezza, quella che però non appartiene al nostro tempo. Resisterà ancora quella, se nel frattempo non l’abbatteremo.


 
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