L'ostilità ambientalista ci costa fior di milioni

di Davide TABARELLI
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Domenica 3 Aprile 2016, 20:20
Il petrolio è chiamato anche “oro nero”, non a caso, perché è un’enorme ricchezza che Natura ci ha regalato. Questo non lo dicono geologi appassionati di rocce nere, né le ricche compagnie, ma lo dicono i milioni di cittadini che in un’economia moderna usano in ogni istante i derivati del petrolio pagandoli a caro prezzo. Solo in Italia ci sono milioni di veicoli che usano benzina, gasolio, gas di petrolio liquefatto (Gpl) o metano e che fanno dell’Italia il paese più motorizzato al mondo. In Italia si produce petrolio da sempre e i primi a documentarlo furono Diderot e D’Alambert nell’Enciclopedie alla fine del 1700 per le produzioni di Parma, Piacenza e Modena, alcune delle quali ancora attive. Allora il petrolio serviva per scopi medici, per curare malattie della pelle o in agricoltura come antiparassitario, oltre che per calatafare, isolare, l’interno delle barche.

L’Italia, paese moderno e industrializzato, consuma circa 60 milioni di tonnellate di derivati del petrolio, con una produzione nazionale di 5 milioni tonnellate, il 9%, quasi tutta concentrata in Val d’Agri, in Basilicata. Le importazioni, pertanto, sono di 55 milioni tonnellate, con un trasferimento all’estero di 20 miliardi di euro all’anno. Da sempre si sa che lì c’è petrolio, perché affiora naturalmente assieme all’acqua intorno a Tramutola. La vera e propria esplorazione comincia cento anni fa, ma solo negli anni ’80 si decide di partire e la prima produzione arriva nel 1998. Le riserve sono enormi, dell’ordine di un 100 milioni di tonnellate, che ne fanno il più grande giacimento su terra in Europa. Gli investimenti effettuati in vent’anni dall’Eni (la prima società industriale italiana e ancora degli italiani per il 30%), è stato di oltre 2 miliardi di euro che hanno creato un sistema di imprese locali dove lavorano circa 3mila persone. Le royalties generate, andate quasi interamente alla regione Basilicata e ai comuni dell’area, sono state di 1,6 miliardi di €. Il sequestro di alcuni impianti dell’autorità giudiziaria ha forzato il blocco della produzione, quasi 80mila barili al giorno, il cui valore, agli attuali prezzi di 40 dollari, è pari a 3 milioni di euro al giorno. Un 10% circa di questo valore, 300mila euro al giorno, vanno alle casse dei Comuni e della Regione che li spendono per migliorare le strade, i servizi ospedalieri, le scuole, a volte per fare piscine: oro che cola, anche se nero. Non è la prima volta che problemi giudiziari si abbattono sugli impianti, ma la produzione poi è sempre continuata, seppur con notevoli ritardi. La questione nasce da una regolazione ambientale che in Italia è particolarmente rigida e confusa, come non accade negli altri paesi industrializzati e che è molto difficile da rispettare senza incappare in infrazioni che hanno poi, solo da noi, carattere di reato penale.

In Basilicata dagli anni ’90 è in fase di sviluppo un altro mega-giacimento, quello di Tempa Rossa, un po’ più a sud di Val d’Agri, con riserve un po’ più basse ed una produzione potenziale di 2,5 milioni tonnellate anno. L’investimento in questo caso è di 1 miliardo di euro che avrebbe potuto generare commesse per acquistare tubi, valvole, opere civili, strutture in tutt’Italia, ma anche in Basilicata. L’intoppo da anni deriva dal fatto che il sistema di trasporto del petrolio attualmente esistente dalla Basilicata a Taranto, dove c’è la raffineria che lo lavora, non è sufficiente e necessita della costruzione di due grandi serbatoi a Taranto, per i quali non si riesce ad ottenere l’autorizzazione a costruire. Sono due strutture che non lavorano il petrolio, ma devono solo contenere il petrolio prima di essere lavorato o esportato. Siccome vicino c’è Ilva, il più grande fallimento in Europa del rapporto industria/regolazione ambientale, allora non si riesce più a fare nulla nell’area. A metà 2015, la Total, la compagnia che ha in mano il progetto, ha deciso di rinviarlo al 2017, decisione che sa tanto di cancellazione, visto anche i recenti sviluppi giudiziari. Il crollo del prezzo del petrolio da 110 dollari per barile a 40 dollari ha favorito questa mossa, tuttavia, entrambi i progetti, sia Tempa Rossa che Val d’Agri, furono decisi negli anni ’90, quando i prezzi erano inferiori ai 20 dollari per barile.

Fossimo in un paese più normale, la produzione da Tempa Rossa sarebbe partita già 10 anni fa e la regione avrebbe potuto incassare altri 500-800 milioni di euro. Questo enorme flusso di risorse sembra generare più imbarazzi che risolvere problemi in Basilicata. Del resto sono propri i suoi politici che si sono dati più da fare per ottenere il referendum contro le trivelle del 17 aprile. La Basilicata da tempo ha vietato nuove esplorazioni e ha limitato l’estrazione in Val d’Agri a 100mila barili al giorno, quando potrebbe essere tranquillamente a 150mila. Anche in questo caso in 10 anni i mancati introiti sono intorno al mezzo miliardo di euro. La diffusa ostilità ambientalista ritarda, nel migliore dei casi, tutti i progetti, ma ha costi ben precisi in termini di mancati introiti e mancati investimenti. Ben vengano normative rigide, ma queste devono essere chiarite e rese più semplici, aggiustamento che deve partire dal Parlamento a Roma. Tutti dobbiamo convenire che il petrolio in Basilicata è un’occasione di sviluppo, nel pieno e incondizionato rispetto dell’ambiente.
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