L'agroalimentare “vola” in Cina, ma sul territorio non cresce l'occupazione

L'agroalimentare “vola” in Cina, ma sul territorio non cresce l'occupazione
di Guglielmo FORGES DAVANZATI
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Giovedì 5 Aprile 2018, 18:48
Stando all’ultimo Rapporto Coldiretti, il Mezzogiorno – e la Puglia in particolare – vede aumentare le sue esportazioni (in particolare di vino) soprattutto nel mercato cinese, con una crescita dell’11% dal 2012 al 2016. Ciò che emerge è che i giovani cinesi – a differenza dei più adulti, consumatori di alcolici locali – cominciano ad apprezzare la qualità del vino italiano e, per quanto riguarda le fasce più alte di reddito, accrescono la loro propensione a importarlo. Coldiretti denuncia un’attività promozionale dell’Italia in Cina ancora poco sistematica.

A fronte di questo dato comunque positivo per l’economia meridionale, va registrato che si tratta di una crescita ancora modesta per quanto riguarda le quantità esportate e che, soprattutto, all’aumento delle esportazioni non si accompagna un aumento dell’occupazione locale e tantomeno un aumento dell’occupazione stabile. Tantomeno un aumento dell’occupazione altamente qualificata. Anzi. Nel periodo preso in esame da Confcommercio, e dunque nel periodo di massima espansione delle esportazioni, su fonte Camera di Commercio, si registra una contestuale flessione dell’occupazione nel settore primario. Dal 2008 al 2016 la compressione dell’occupazione nel settore agricolo si è assestata a poco più del 23%, con un modesto aumento nel solo 2015. Le retribuzioni medie nel settore primario restano drammaticamente basse.

Per la Puglia il livello dell’occupazione nel settore agricolo rimane pressoché invariato (intorno a 106mila unità) nel periodo 2008-16. Al calo di 22,9 unità registrato nel biennio 2013-14 ha fatto seguito un aumento dell’occupazione di 19,3 unità nell’ultimo biennio (2015-16).

Nello stesso periodo (2008-16), nel Mezzogiorno registriamo - contrariamente al Salento e alla Puglia - un aumento complessivo di 6,9 unità (+1,65%). Infatti, nonostante il calo del 2009 (-20,4 mila unità) e del triennio 2012-14 (-31,3 unità), nell’ultimo biennio (2015-16) si è registrato un aumento di 43,2 mila unità.
A livello nazionale si registra un aumento di circa 30mila unità nei 9 anni considerati (2008-2016). Dopo i cali del 2009 (-16,4 mila unità), del 2011 (-17,2 mila unità) e del 2013 (-34,2 mila unità), si assiste ad una crescita di 84,8 unità nell’ultimo triennio (2014-16).

Si può osservare che, come rilevato a più riprese dall’Istat, si tratta di un fenomeno tipicamente italiano: nei periodi di crescita delle esportazioni, non si registra crescita dell’occupazione. L’assenza di una correlazione fra esportazioni e occupazione può essere spiegata, almeno in parte, considerando la struttura produttiva del Mezzogiorno e la tipologia merceologica dei beni che il Mezzogiorno esporta.

a) La struttura produttiva del Mezzogiorno è fatta da imprese di piccole dimensioni, con bassa propensione all’innovazione, spesso a gestione familiare. In una fase – come quella qui presa in considerazione – di caduta della domanda interna, è agevole per queste imprese (soprattutto perché piccole e dunque difficilmente catturabili da controlli) o per parte di esse collocarsi nell’economia sommersa. Essendo, per definizione, le dimensioni di quest’ultima non quantificabili, si può porre la congettura per la quale l’aumento delle esportazioni ha sì avuto effetti positivi sull’occupazione, ma soprattutto (se non solo) sull’occupazione non regolare. A ciò si associa un intensificarsi dei fenomeni di ‘ritorno alla terra’, che tuttavia, più che contribuire alla crescita dell’occupazione nel settore primario, appaiono configurarsi come tentativo di far fronte alla caduta dei redditi e alla deindustrializzazione (anche del Mezzogiorno) attraverso l’autoconsumo.

b) Le nostre esportazioni agroalimentari sono trainate essenzialmente da fattori che attengono alla qualità del prodotto e non al prezzo. La qualità del prodotto, a sua volta, non dipende dal suo contenuto innovativo: nella gran parte dei casi, la produzione di vino non richiede ingenti investimenti in ricerca e sviluppo. Appare evidente, alla luce di questo dato, che l’aumento delle esportazioni non solo non si associa a un aumento dell’occupazione, ma soprattutto non determina un aumento dell’occupazione altamente qualificata. E neppure attiva ricerca di base e applicata. Essendo pressoché nullo il contenuto innovativo dei prodotti esportati, e date le piccole dimensioni delle imprese esportatrici, non vi è né possibilità né convenienza ad assumere forza-lavoro con elevate competenze tecniche né a domandare alle Università locali ricerca di base e applicata.
È del tutto legittimo che Coldiretti invochi maggiore capacità di penetrazione nel mercato cinese attraverso maggiore e migliore pubblicità dei nostri prodotti. È però altrettanto legittimo far presente che l’aumento delle esportazioni rischia di generare ulteriori aumenti delle diseguaglianze distributive, accrescendo i profitti delle imprese esportatrici senza ricadute apprezzabili su occupazione e salari.


 
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