Gli psicologi d'emergenza: «Ecco come prepariamo i parenti allo choc del riconoscimento»

Gli psicologi d'emergenza: «Ecco come prepariamo i parenti allo choc del riconoscimento»
di Pietro Treccagnoli
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Mercoledì 13 Luglio 2016, 19:25 - Ultimo aggiornamento: 21:23
Non è solo la tragedia di chi è morto, di chi è ferito, delle famiglie che hanno perso un pezzo insostituibile della propria vita. Non è solo la loro tragedia, lo sa bene il pool di psicologi dell'emergenza, una quarantina di uomini e donne, che in questi giorni tra gli ospedali di Bari e delle altre città pugliesi che hanno accolto morti e feriti, si stanno prodigando a dare conforto, non è solo la tragedia dei colpiti, dei sommersi e dei salvati, esiste anche il trauma vicario dei soccorritori che per settimane dovranno convivere con immagini, scene, odori che, a loro come ai sopravvissuti e ai familiari, disturberanno il sonno e la veglia, li faranno fermare improvvisamente in preda a un ricordo crudele, insinuante, incancellabile. 

Nelle parole degli psicologi, asciutte e tecniche, permane sempre una traccia di malessere personale, trattenuto a fatica dalla professionalità conquistata sul campo. Anna Palumbo, 37 anni, è una delle volontarie che accompagna i familiari nello spietato e indispensabile esercizio del riconoscimento. Come gli altri è coordinata da Antonio Di Gioia, 46 anni, presidente dell'Ordine regionale degli psicologi. Entrambi hanno da poco lasciato i sotterranei dell'Istituto di Medicina Legale del Policlinico di Bari, dove hanno seguito un protocollo rigido per sostenere i parenti, una procedura consueta che dovrebbe mettere al riparo da un coinvolgimento emotivo. "Ci sforziamo molto" chiarisce la Palumbo. «Attorno a noi avvertiamo di clima di forte emozione e di rabbia trattenuta a fatica, ma soprattutto di incredulità».

L'emotività entra nel corpo di chi resta e lacera come un coltello. Lascia ferite che il tempo dovrà cicatrizzare. La procedura che porta all'aggiunta di un altro nome al triste catalogo della morte comincia in una grande stanza, nella quale si radunano a gruppi i parenti delle vittime. «Qui aspettano - spiega Di Gioia - Il primo passo è il riconoscimento di effetti personali, serve per farli entrare gradualmente in una nuova realtà che deve tener conto di un'assenza improvvisa e infinita». A padri, figli, sorelle, fratelli, a volte persino amici, vengono mostate delle immagini su un computer. Sono segmenti di vita scampati alla distruzione delle lamiere, oggetti che si caricano di un significato pietoso. Occhiali, portachiavi, un anello, un cappellino, una collanina con un crocifisso, una borsa, il brandello di vestito. I medici legali le fanno scorrere sullo schermo e gli occhi dei parenti cominciano a riempirsi di lacrime. 

Lontano da occhi indiscreti il dramma prende forma. «Perché a me, perché proprio a me, che peccato devo scontare?» ripetono un po' tutti. Quindi si scende ancora di un piano, qui sono raccolte le salme, immobili, fredde. «Viene mostrato il volto, quando è possibile, quando non è sfigurato» ricostruisce con la voce spezzata la Palumbo. «Altrimenti altre parti del corpo inconfondibili, magari per un tatuaggio, parti che hanno un impatto emotivo meno stravolgente della faccia irriconoscibile». A questo punto la reazione più scontata è il pianto.
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