Dal Rio Grande a Alan, quegli scatti dimenticati troppo presto

Dal Rio Grande a Alan, quegli scatti dimenticati troppo presto
di Nicolas Lozito
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Venerdì 28 Giugno 2019, 19:55
Più che fotografie sono stigmate. Stigmate del nostro nuovo mondo: cicatrici sulla pelle universale che condividiamo e, ormai periodicamente, dobbiamo affrontare. Da oggi ci sono due nuovi nomi da aggiungere all'elenco: Oscar Alberto Martinez, Angie Valeria. Padre e figlia annegati nel fango del Rio Grande. Il nuovo simbolo delle migrazioni dell'America centrale. «Volevano il sogno americano», commenta Julia Le Duc, la fotografa autrice dello scatto che ha fatto discutere, piangere, soffrire e soprattutto indignare. Un trauma vicario, collettivo e profondo, ma allo stesso vittima della stessa potenza che lo ha propagato in tutto il mondo, ovvero la viralità, terribile parola che si usa quando un contenuto digitale prende il veloce passaparola della rete, esplode e in pochi giorni si indebolisce. «Mai più», «Adesso basta», «Facciamo qualcosa», chiede il mondo. Ma se la forza della foto è universale, un'istantanea non è sufficiente per cambiare il mondo.

Ricordate Alan Kurdi, il bambino morto sulle spiagge turche di Bodrum la cui foto aveva fatto il giorno del mondo? Il corpo gonfio e immobile, la maglietta rossa e i pantaloncini blu lavati dalle onde sul bagnasciuga. Era il 2015. Organizzazioni internazionali e capi di Stato avevano promesso di mettere fine alla tragedia delle migrazioni pericolose nel Mediterraneo. Eppure, proprio l'anno dopo, il padre dello stesso Alan, Abdullah Kurdi, l'unico sopravvissuto della sua famiglia, aveva intuito il destino: «Il mio Alan è morto per niente. Il mondo l'ha pianto, ma ora vedo solo muri e scarsa volontà di accoglienza».

Oppure ricordate Omran Daqneesh, il bambino siriano con i capelli a caschetto pieno di polvere e sangue, con gli occhi incantati di terrore, seduto su un'ambulanza durante la guerra di Aleppo nel 2016? Lui, no, non era morto, ma il suo scatto ci aveva fatto capire la violenza indiscriminata verso la popolazione civile. Sgomento e lacrime in tutto il mondo: eppure la guerra in Siria è ancora lì.

Un altro esempio vale la pena ricordare, con al centro sempre un bambino: nel 1994 Kevin Carter vince il Pulitzer per il suo scatto del 1993 che ritrae un giovanissimo sudanese in fin di vita con alle spalle un avvoltoio. Una foto maledetta, perché Carter sperava davvero di scuotere le coscienze e con un click combattere la fame nel mondo. Ma nulla cambia, così che pochi mesi dopo il premio Carter decide di suicidarsi, avvelenato per sempre da quella visione e del terribile ossimoro della impotente potenza delle immagini. «La morte è l'eidos, l'essenza delle foto», scriveva il filoso Roland Barthes. Mai così vero. Eppure, per quanto immediate e universali, sono immagini che non ci scalfiggono più nel profondo. Stigmate che compaiono, ma poi, per sovrabbondanza o per fatica, domani dimentichiamo tra le mille altre indignazioni quotidiane.


La tomba costruita nel punto in cui padre e figlia sono morti annegati nel Rio Grande (foto Rebecca Blackwell/AP)
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