Coronavirus, in Brasile allarme favelas: guerra di sopravvivenza tra epidemia, fame e criminalità

Coronavirus, in Brasile allarme favelas: guerra di sopravvivenza tra epidemia, fame e criminalità
di Francesco Padoa
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Sabato 28 Marzo 2020, 09:33 - Ultimo aggiornamento: 16:12

«Bolsonaro come Nerone, se la ride mentre il Brasile brucia»: questo il senso di un duro attacco del britannico The Economist contro le posizioni assunte dal presidente brasiliano riguardo alla pandemia di coronavirus. «BolsoNero», è il titolo dell'articolo dell'Economist, nel quale si ricorda che il presidente brasiliano si è riferito ripetutamente al coronavirus come «un'influenzina» o «un raffreddorino», e che si oppone alle misure restrittive per lottare contro l'epidemia, violando ripetutamente in pubblico le norme di isolamento sociale. Non è un caso che anche il vicepresidente Hamilton Mourao abbia preso le distanze dalle dichiarazioni del presidente Jair Bolsonaro, come anche quasi tutti, 25 su 27, i governatori degli stati del Paese sudamericano, che hanno ribadito di voler applicare regole di “contenimento” della popolazione.

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Insomma, Bolsonaro, sembra isolato, ma sempre più deciso a portare avanti la sua strategia. Nella mente da ex militare del presidente, forse, la preoccupazione maggiore non è il coronavirus inteso come malattia, ma le conseguenze che l'isolamento della popolazione potrebbe provocare. Per alcuni il lockdown potrebbe infatti avere effetti devastanti, alimentando la criminalità a livelli ancora più elevati degli attuali. Dunque, la paura di Bolsonaro arriva dalle 6.300 favelas sparse sull'immenso territorio brasiliano? Dove vivono oltre undici milioni di persone in condizioni spesso particolarmente disagiate? Basta guardare cosa è avvenuto in questi giorni, mentre il “coprifuoco” nelle grandi città come San Paolo, Rio o Brasilia è tra l'altro ancora limitato: negozi saccheggiati, appostamenti per aspettare e rapinare chi esce di casa, con i soldi in tasca, per andare a fare la spesa. Violenza. Talvolta armata, anche per pochi reais, ovvero pochissimi centesimi di euro.



Del resto nelle metropoli sempre più deserte, è ancora più semplice agire indisturbati: le forze dell'ordine che sono abitualmente in grande difficoltà (quando non travolte dalla corruzione) nel contrastare i reati che quotidianamente si verificano a centinaia, anche in pieno giorno, nelle strade trasformate in scenari da far west, inevitabilmente diventano quasi del tutto impotenti in questa situazione d'emergenza causata dall'epidemia. Difficile, quasi impossibile arginare, nel buio e nel silenzio delle città semivuote chi esce come formichine, in punta di piedi, da quegli immensi agglomerati di vita misera e spesso disperata, che sono le favelas. Un anno fa, in centro a San Paolo, un cartellone di quelli della pubblicità, grande con sfondo giallo, diceva a caratteri immensi e chiari: in Brasile c'è un delitto ogni 17 secondi. In tempi normali. Figuriamoci ora, in una realtà che potremmo definire di guerra, cosa potrebbe scatenarsi e quale esplosione di criminalità potrebbe fuoriuscire dalle favelas. Forse a questo ha pensato Bolsonaro prima di fare quelle affermazioni che ai più sono apparse assurde e moltissimi hanno giudicato folli e pericolose.

 

 


Ma l'altra domanda fondamentale che viene alla mente in questo stato d'emergenza è: quanti residenti delle favelas rispetterebbero il lockdown? Su esempio di San Paolo, anche Rio de Janeiro intanto ha deciso la chiusura obbligatoria degli esercizi commerciali della città con l'obiettivo di contenere la diffusione dell'epidemia. Le eccezioni riguardano, tra gli altri, le farmacie, i panifici, le stazioni di servizio ed i negozi di attrezzature mediche e ortopediche. I bar ed i ristoranti potranno fare solo consegne a domicilio. Le misure verranno applicate a tempo indeterminato. «Dobbiamo proteggere la popolazione. La maggior parte delle persone che vivono nelle favelas, ad esempio, lavorano nel settore commerciale», ha scritto in una nota il sindaco di Rio, Marcelo Crivella.

«Qui ci sarà un massacro»: questa l'avvertenza sulla diffusione del coronavirus lanciata dai dirigenti locali di alcune delle principali favelas di San Paolo, che hanno cominciato ad organizzarsi in modo autonomo per combattere l'epidemia con gli scarsi mezzi a disposizione. Intervistato dal portale news Uol, Gilson Rodrigues, responsabile di un'associazione di residenti di Paraisopolis - che con più di 100 mila abitanti è la seconda più grande della megalopoli, dopo Heliopolis - afferma anzitutto che «finora non ho sentito nessuno usare la parola favela: per quelli che governano noi non esistiamo». Le strutture sanitarie in queste baraccopoli sono estremamente fragili: l'erogazione dell'acqua potabile non è regolare - possono passare quattro giorni senza che esca niente dai rubinetti - i medici di famiglia sono chiaramente insufficienti, meno di uno ogni 10 mila abitanti, e le condizioni precarie di molte abitazioni, nonché la concentrazione della popolazione, rendono molto difficile l'isolamento sociale. Le associazioni di residenti si stanno organizzando in modo autonomo, creando mense popolari che consegnano pasti a domicilio, soprattutto agli anziani, usando case vuote per istallarvi centri di isolamento per i casi di sospetto contagio. I media sottolineano che il comune di San Paolo non informa in modo specifico sui casi registrati in queste comunità. «Siamo in una gara contro il tempo, ma non ce la faremo mai senza assistenza», ha riassunto un dirigente locale della favela di Heliopolis.

E, inevitabile, è arrivato il primo caso di positività in una favela. Un residente di Cidade de Deus, situata nella zona ovest di Rio de Janeiro e resa celebre dall'omonimo film (2002) di Fernando Meirelles, è risultato positivo al test del coronavirus: secondo il sito ufficiale del Comune, questo è il primo caso confermato della malattia in una baraccopoli. La situazione sta allarmando gli esperti, preoccupati per una possibile esplosione incontrollata dei casi, poiché i residenti di queste regioni soffrono di cattive condizioni di salute e di scarsi servizi igienico-sanitari, fattori che sfavoriscono la lotta all'espansione dei contagi. Giovedì scorso, si sono registrati almeno 24 casi sospetti del nuovo coronavirus nelle favelas di Rio, secondo un'analisi inedita condotta dal team di Sorveglianza sanitaria della segreteria alla Sanità municipale. I casi confermati e sospetti sono segnalati per quartiere e le baraccopoli non rientrano in questa distribuzione del sistema municipale di Rio. Cidade de Deus è una eccezione perché è una delle poche favelas classificate come quartieri ufficiali.

E mentre chi difficilmente riuscirà a seguire l'esempio mondiale del “iorestoacasa”, c'è in Brasile chi preferisce altre modalità di precauzione.
Isolamento totale. Due popoli che vivono nella terra indigena Caru, nel nord dello stato di Maranhao, hanno deciso di rifugiarsi nella foresta amazzonica per proteggersi dopo aver ricevuto notizie sull'aumento dei contagi anche in Brasile. Parlando con il blogger di GloboNews, Matheus Leitao, il capo tribù Antonio Guajajara, rappresentante dell'etnia Guajajara, ha spiegato che la decisione è stata presa dopo un incontro con la maggior parte degli indios presenti nel villaggio. I primi a decidere di ritirarsi all'interno della foresta sono stati gli indigeni Awà Guajà, seguiti dai Guajajara. Secondo il leader indigeno, solo i nativi del villaggio possono entrare nel luogo. L'accesso non è permesso né ai funzionari della Fondazione nazionale dell'indio (Funai), né agli indios provenienti da altri villaggi.

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